Su “I frati del popolo” di Gaetano Bruno e “Il Dramma Sacro del Venerdì Santo” di Salvatore Palmeri di Villalba
[Tra le pubblicazioni recenti], ci sono anche begli esempi di accuratezza, acribia storica, scrupolo e cura nell’analisi delle fonti. Parlo della seconda edizione de “I Frati del popolo. I Cappuccini in Vittoria” di Gaetano Bruno, che è anche un giovane e promettente artista. La ricostruzione della nascita della chiesa dei Cappuccini a Vittoria tra il 1691 e il 1705 è precisa e puntuale e in questa nuova edizione l’autore pubblica nuovi interessanti documenti (in particolare una Memoria anonima) che getta nuovi particolari sulla storia della chiesa, che conserva alcuni capolavori, tra cui la statuetta della Madonna di Loreto, che risale al 1740 e il grande quadro dell’Immacolata dell’altare maggiore, di un maestro del Settecento (dubito molto dell’attribuzione ad Olivio Sozzi). Infine, l’autore accenna alla fiera della Madonna di Loreto, concessa nel 1681 all’altare omonimo dentro la chiesa di San Biagio. Riconcessa nel 1796 con lo stesso titolo (insieme con la fiera di san Giovanni), la fiera ai Cappuccini divenne poi un’istituzione economica fondamentale per la vita di Vittoria. Trasformatasi a fine Ottocento nella fiera di San Martino, la sua presenza dura fino ad oggi. Altro bell’esempio di scrupolo certosino ed attenzione filologica è il lavoro di Salvatore Palmeri di Villalba, studioso puntuale e depositario di un immenso archivio di carte e conoscenze, che ha ricostruito il testo originale del marchese Alfonso Ricca, alla base della Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo. In merito alla data d’inizio dell’uso di questo testo Palmeri, nella, sua prudenza di studioso, dice che fu utilizzato dopo il 1859. E ha ragione. Dire infatti che il testo del Ricca fu utilizzato da quell’anno è errato. Il 1859 è infatti l’anno in cui a Vittoria venne una missione di Cappuccini (ne parlano Orazio Busacca nelle sue Effemeridi e Monsignor La China), che portò alla progettazione del nuovo Calvario, la cui costruzione risulta già interrotta nel 1862 e lo stesso La China, nel 1890, dice che era ancora incompleto. Il Calvario fu completato solo nel secondo decennio del Novecento, come accertato dal prof. Alfredo Campo per le decorazioni interne. A mio avviso il testo del Ricca non sarebbe stato adottato prima del 1880 (Giuseppe La Barbera anni fa pubblicò un interessante corrispondenza di quegli anni tra mons. La China e il vescovo di Siracusa proprio sui testi in uso nelle recite del Dramma Sacro). Dove e cosa si recitasse per il Venerdì Santo prima del testo di Ricca, La China parla di dialoghi intitolati “Scesa dalla Croce” dal 1669 ma non sappiamo in cosa consistessero. Forse ce ne è traccia in alcuni frammenti in versi riportati da Giovanni Consolino in “Poesia popolare a Vittoria” (Canti religiosi, pagg. 273 e segg.). Quel che è certo è l’esistenza antica della processione, affidata alla Congregazione del SS.mo Crocifisso, di cui nel bilancio dell’Università del 1748 ho trovato traccia nella spesa per fiaccole, per accompagnare Gesù al Calvario e per il ritorno a San Giovanni. Alfonso Ricca, un conservatore illuminato, più volte consigliere civico, morto nel 1850, lasciò scritto un testo imperniato sul contrasto fra Ragione e Superstizione. A mio avviso fu La China, a conoscenza di questo testo, ad usarlo, proponendolo alla Congregazione, al posto forse delle scene improvvisate e a volte poco consone che venivano recitate. Ma le mie sono solo ipotesi. Di certo c’è il bel lavoro di Salvatore Palmeri, che è un punto fermo nella filologia del testo (già ampiamente studiato del resto dal prof. Angelo Alfieri nel 1988). Per affinità di argomento, ritornando al testo del prof. Audieri, al netto delle piccole imprecisioni da me già riferite, si tratta di un ottimo lavoro, che arricchisce di documentazione inedita la storia delle Congregazioni a Vittoria.Su “La città difficile”, di Francesco Aiello.
Nella mia ricostruzione della storia politica ed amministrativa di Vittoria pubblicata nel volume “La memoria e il futuro. La CGIL in provincia di Ragusa dal 1944 al 1962” (Ediesse 2006), mi fermai al 1962, sia per dare un punto fermo alla mia ricerca (già enorme e troppo minuziosa), sia perché individuai in quell’anno, caratterizzato da una grave sconfitta sindacale per il contratto di compartecipazione, un discrimine temporale. Infatti, nonostante l’apparente sconfitta del movimento contadino vittoriese e provinciale, che non riuscì a strappare un contratto generale che regolasse la compartecipazione, quella “sconfitta” in realtà si tramutò in una grande vittoria. Perché ormai, la realtà era più avanti delle forze conservatrici che pure avevano resistito per mesi a scioperi e manifestazioni e il contratto fu applicato azienda per azienda, a prescindere dal contesto generale. La realtà vinse l’opposizione ideologica di agrari e coltivatori diretti, perché lungo la costa in mezzo alle dune sabbiose era nata la serricoltura, giustamente definita da Aiello “la più grande rivoluzione agraria del secolo”, capace di mutare la vita e la sorte di migliaia di famiglie vittoriesi.
Mi ero riservato di continuare la mia ricostruzione storica in futuro, quando avessi avuto documenti e materiali sufficienti, che andassero oltre i racconti ascoltati più volte dai dirigenti del Pci con cui venni a contatto, dall’on. Filippo Traina, all’on. Rosario Jacono (primo proponente nel marzo 1959 di una legge sulla serricoltura che mai fu approvata per l’assoluta novità della questione e il cui merito poi ricadde sull’on. Feliciano Rossitto, quando essa fu approvata nel 1964), a Nunzio Pirone, a Giovanni Di Stefano ed altri. Nel corso degli ultimi mesi però mi sono deciso a riprendere l’idea di continuare oltre il 1962, almeno come storia amministrativa della città, anche alla luce degli ultimi avvenimenti, con lo scioglimento del Consiglio Comunale e con l’impressione personale che la città stia sprofondando in un vuoto di idee e di progetti per il futuro e che sia priva di una classe dirigente all’altezza della situazione (lo scioglimento del Consiglio ne è infatti la prova). Continuo infatti a pensare che è utile conoscere il passato, per non smarrirsi nelle nebbie del presente, spesso ormai fatto solo di superficiali “clic” su fb e di opinioni a volte improvvide, improvvisate, prive di spessore e soprattutto spesso non basate sui fatti ma su ciò che si immagina o si è sentito dire che sia accaduto…Per questo, la testimonianza dell’on. Francesco Aiello, contenuta nell’agile volumetto da poco pubblicato, pur se ferma al 2015, è di straordinario interesse. Perché aiuta a capire cosa è successo in questa città dagli anni ’80 in poi e getta anche un raggio di luce per capire meglio le ultime vicende. Per questo gli sono grato e terrò conto della sua testimonianza, ricca di spunti e venata anche da una non richiesta e sincera autocritica su certe scelte operate, cosa che gli fa onore e fa a me ricordare l’onore di averlo avuto come mio professore all’ultimo anno di Liceo.
Nei documenti consegnati alla memoria e nell’Archivio Comunale, in centinaia e centinaia di atti consiliari e di giunte municipali, nei fascicoli recanti decine e decine di testi di manifesti, o.d.g., relazioni, interventi etc. etc. dal 1946 in poi è custodita la grande storia di questa Città: Comune Democratico alla testa di grandi lotte per l’assistenza ai poveri, di grandi battaglie per la pace e contro i missili Cruise, per il risanamento del territorio e per dotare la Città degli strumenti urbanistici, i servizi primari, i servizi sociali alle categorie più deboli, le scuole e gli asili nido, la cultura, la ricerca delle proprie origini, la tutela e la valorizzazione del centro storico e naturalmente la lotta contro la mafia e la criminalità organizzata, con le grandi manifestazioni popolari dal 1983 in poi. Con la semplice e ovvia constatazione che a Vittoria c’è la mafia non perché i suoi abitanti hanno la criminalità nel loro dna (come qualche idiota ancora continua a sostenere), ma perché è la ricchezza che attira la mafia: e a Vittoria, alla fine degli anni ’80 nei depositi bancari c’erano oltre 250 miliardi ed il mercato aveva un giro d’affari di 400 miliardi…Questo scatenò la guerra di mafia e generò tutte le vicende degli anni seguenti, con numerose operazioni di polizia. E mai politici o amministratori furono in odore di collusione, anzi subirono attentati e aggressioni.
La breve intervista di Aiello, questo conferma e per questo costituisce una testimonianza preziosa, da cui partire e su cui riflettere, per dare un futuro a questa città, ai suoi giovani, per costruire gruppi dirigenti legati ai bisogni collettivi e non rappresentanti dei gruppi di potere che dal mercato e i suoi contorni dominano l’economia della città. Questo è il compito del presente, per costruire un futuro.
Sulla “Breve storia della Sicilia” di John Julius Norwich
Della lettura delle prime pagine del volume di J.J. Norwich sulla storia della Sicilia mi hanno colpito due cose: in epigrafe le frasi che il principe di Salina nel Gattopardo dice a Chevalley, il piemontese inviato a proporgli la carica di Senatore e cioè che i Siciliani siamo un popolo “svuotato” e che per noi sarebbero incomprensibili i resti dei monumenti delle meravigliose civiltà che si sono susseguite in Sicilia, tutte venute dall’esterno, senza alcuna nostra partecipazione. La seconda è che la Sicilia sarebbe “un’isola triste”, dove l’autore (peraltro affascinato dalla bellezza dei luoghi) non avrebbe ritrovato la gioia di vivere che ci sarebbe nel resto d’Italia. Quanto al primo punto mi sembra che l’autore di una bella storia sui Normanni si sia lasciato influenzare dalla vecchia storiografia. La Sicilia è stata un crogiuolo di popoli e di civiltà, diffusesi nell’Isola dall’esterno. Ed ogni nuova corrente di civiltà qui ha attecchito, fosse di origine sicula o greca o fenicia o araba o normanna etc.. La Sicilia è stata un’isola quasi interamente greca per oltre 1600 anni (dal 750 a.C. fino alla conquista araba, ed anche sotto i Romani) e mi è sembrata ridicola l’etimologia del suo nome che Norwich fa derivare da una fantomatica radice greca “sik” che tradurrebbe “isola fertile” (la radice “sik” indica frutti come “cetrioli, melloni, angurie”: insomma una sorta di “terra dei cetrioli?). Invece è assodato da secoli che la Sicilia è “la terra dei Siculi” (Sikelòi), stanziati nella parte orientale dell’isola al momento della colonizzazione greca, mentre gli esploratori Micenei l’avevano chiamata “Trinakìe” e “Sikanìe” (per la presenza di genti chiamate da loro “Sikanòi”) nei loro sbarchi precedenti la venuta dei Siculi nell’XI sec. a.C. A parte questo, la coscienza “nazionale” dei Siciliani nacque solo con il Vespro nel 1282, in contrapposizione alla prepotenza angioina e dopo il passato arabo e normanno-svevo, di cui è errato dire che furono “dominazioni”. I Siciliani poi fummo spagnoli per oltre 400 anni e poi dal 1860 italiani. Insomma, la storia della Sicilia non è storia di “dominazioni”, ma di classi dirigenti sempre legate al potere e di popolo sempre sofferente perché sottoposto ai nobili e alla Chiesa siciliani, collegati con i padroni di turno. Quanto a dire che l’Isola è “triste”, non saprei. Certo, oggi, la Sicilia non ha motivi per stare allegra: è una delle ultime regioni d’Europa per reddito pro-capite; le infrastrutture sono un disastro e indegne di un Paese moderno, alluvioni e incendi ne devastano il territorio, le coste sono ampiamente devastate, l’industria petrolchimica ha distrutto paesaggi tra i più belli d’Italia, l’agricoltura è in affanno, i rifiuti rischiano di sommergere città e campagne, mafiosi e corrotti continuano indisturbati, gli ultimi governi sono stati una “gelata” e quello attuale brilla per assenza e inattività assoluta. Eppure, quando si va in giro, non si può fare a meno di ammirare la grandiosità e la bellezza del paesaggio, la meravigliosa cultura e i magnifici monumenti che gli antenati (antenati, non dominatori) greci, fenici, bizantini, arabi, normanni, svevi e spagnoli ci hanno lasciato. Sì, Norwich ha ragione nel dire che la Sicilia è un’isola triste, perché il passato è incommensurabilmente superiore allo squallido presente. Vero, c’è da essere tristi per come è ridotta la Sicilia. Per colpa di noi Siciliani…
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