Indice
Premessa
1.Le case nella città del vino dal Seicento ai Settecento
a)L’inventario Laurifici (1708)
b)Dai riveli del 1714 e del 1748: i Ricca.
c)Un atto dotale del 1739
2.La casa ed il vestiario dei contadini in S.A. Guastella
3.Le case contadine dall’Otto al Novecento
a)Giuseppe Pitré
b)La casa contadina in Salvatore Salomone Marino
c)Le case contadine a Vittoria ai primi del Novecento
d)Le case contadine a Comiso in Stanganelli
e)Monumenti e case in stile Liberty a Vittoria decorate con l’uva
4.Case e bagghi nelle campagne dal Sette al Novecento.
a)Nei riveli del 1748 e del 1811-16
b)Le abitazioni di campagna in Arcangelo Mazza
c)La casa rurale nella zona viticola di Vittoria negli anni Cinquanta del Novecento
c1)”i bagghi”
c2) Le case in città
c3)Rifugi nelle aree orticole
c4)Le case dei pastori e le mandre
5.La vendemmia dai ricordi personali agli studi recenti sul vigneto e la “civiltà contadina”
a)La vendemmia in contrada Pettineo negli anni ’50-60
b)I dolci a base di mosto della tradizione vittoriese: mustata, cuddireddi, mastazzola
6.Rassegna di studi e di studiosi sulla tradizione della vendemmia a Vittoria
a)”Il palmento”, di Giuseppe Coria
Box.Giuseppe Coria
b)Guida alla vitivinicoltura
c)Arturo Barbante, “Strumenti di lavoro e tradizioni locali”.
Box. Arturo Barbante
d)Attilio Zarino, Oggetti-segno della vitivinicoltura e dell’artigianato indotto
Box.Attilio Zarino
e)Giuseppe Mangione, Ceramiche da mensa e da ornamento nelle case di fine Ottocento e di inizio secolo”, in La casa tra Otto e Novecento…” Distretto Scolastico n. 53 Vittoria, 1999
7.Il carretto in stile “a Vitturisa”
a)La storia del carretto in Enzo Maganuco
b)Il carretto in Salvatore Lo Presti
c)“Il carretto siciliano”, di Arturo Barbante
d)Il carretto “a Vitturisa” in Santo Leggio
e)I carretti di Giovanni Virgadavola
Appendice
La tradizione di San Martino a Vittoria ed in Sicilia: una rassegna dolce e salata di “frijteddi”, “sfinci”, “crispeddi” e “taronchi”…
Premessa
Dopo aver completato la parte storica sul vigneto, vorrei ora accennare alle “eredità” materiali ed immateriali della civiltà della vite e del vino nel nostro territorio. In questa Appendice I cercherò di delineare l’eredità “materiale”, cioè tutto ciò che è ancora “visibile” (seppure in certi casi in rovina) o ancora vive. Passeremo infine in rassegna gli studi di quanti prima di me hanno dedicato ricerche e scritto saggi ed articoli sulla “civiltà contadina” legata al vigneto. Nell’Appendice II tratterò invece dell’eredità “immateriale”, ed in particolare della presenza del vino nella poesia vittoriese (con la riproposizione delle poesie dedicate al vino dal più grande dei poeti vittoriesi di tutti i tempi: Neli Maltese); accennerò quindi alla “saggezza popolare” sedimentata nei proverbi e modi di dire legati al vigneto. raccolti da Giovanni Consolino (nell’ambito anche di quelli raccolti da Giuseppe Pitré). L’Appendice II sarà completata da un piccolo “dizionario della civiltà contadina” estratto dal lavoro di Consolino ed integrato con i termini riscontrati negli autori che hanno scritto sul nostro vigneto, da Sestini e Balsamo fino ad oggi.
Obbligatoriamente questa Appendice I comincia dall’edilizia.
Il vigneto ha creato una tipologia di case basse, poi man man l’ha arricchita di una “carretteria” laterale (ed in alcuni casi anche di una dispenza, cioè la cantina) ed in casi di benessere ha creato i “palazzelli” (case ad un piano) e i grandi tenimenti, cioè più stanze terrane con “officine” a piano terra e primo piano “nobile”.
Il vigneto ha creato una rete capillare di trazzere, per la necessità di penetrare nelle contrade e rendere agevole alle persone il raggiungere le campagne ed il trasporto del vino dalle campagne alla città e poi a Scoglitti: uno sviluppo accelerato dall’introduzione ai primi dell’Ottocento di un nuovo mezzo di trasporto, il carretto, al posto delle lunghe “redine” di muli guidate da bordonari, cui prima si ricorreva.
Il vigneto ha creato negli anni Venti dell’Ottocento un primo nucleo industriale, con la distilleria Ingham nel 1825 e poi quella dei Florio dal 1850, poi assorbita da Ingham-Whitaker nel 1863: concentrate al Giardinazzo, l’antico Bosco di Custureri, nei pressi della strada per Burgaleci, la più vicina e scorrevole verso lo scaro di Scoglitti. Una via poi trasformata in strada provinciale su richiesta di Ingham, con la costruzione dell’attuale moderno tracciato Vittoria-Scoglitti, per favorire il rapido trasporto a Marsala tramite Scoglitti dell’alcool prodotto per “conciare” il Marsala. Dopo la crisi della fillossera, attorno alla nuova stazione, sorse un secondo nucleo industriale di distillerie (la maggiore delle quali fu quella del Consorzio Agrario) ma quest’industria nacque al servizio della città, allo scopo di mantenere discreto il prezzo del vino e togliere dal mercato i vini guasti ed inaciditi. Altre industrie lavoravano i residui della vinificazione (feccia) per la produzione del cremor di tartaro. Di questi due poli, oggi esistono solo alcune rovine, lungo la via Pietro Gentile, lungo lo stradale per Gela e nei pressi della stazione (quella del Consorzio). Solo rovine.
Allo stesso modo, solo in rovina oggi appaiono decine e decine di caseggiati di campagna e molti edifici antichi (costruiti a “tajo”, cioè con pietre e fango) e delle centinaia di “bagghi” con decine e decine di palmenti (ne ho contati 195 solo per il 1748) oggi quasi nulla esiste. Come nulla esiste del gran numero di mestieri ed attività legate al vigneto: solo per affezione di alcuni oggi perdura la tradizione dei carretti (oggetto però di interessanti studi generali cui accennerò). Ad oggi, resistono invece i monumenti in città decorati con riferimenti al vigneto, presenti anche in alcune case in stile Liberty.
1.Le case nella città del vino dal Seicento ai Settecento
Nei riveli 1623-1748 si parla di case terrane, casuncule, case congiunte e collaterali, di case in più corpi, di tenimenti (in genere da 4 corpi in poi), di case solarate, di palazzelli se con un primo piano (ci poteva anche essere un astraco, cioè un terrazzo). In una casa non potevano mancare un’alcova e la cucina e se il padrone si poteva permettere una bestia da soma (in genere un asina o nel caso di persona più agiata un mulo o addirittura un cavallo, non poteva mancare una stalla). Ci sono pure case con dammusi[1]. Non si parla di catoi, cioè di ambienti piccoli e privi di luce ed aria però nel 1638 è registrata una contrada chiamata Catodio Grandi dove tale «Vincenzo Ciciruni possiede una salma di frumento seminato in maisi a confine con terre di Santoro Nanì e terre della Corte». Da altra fonte sappiamo che questo Santoro Nanì possedeva terre in contrada Croce (allora corrispondente all’attuale zona di San Francesco di Paola), dove pertanto doveva esistere qualche vecchia costruzione detta appunto catodio grandi, cosa che però è una contraddizione in termini, a meno che non si tratti di una grande grotta. Dall’estimo del 1623 apprendiamo che un luogo di casa costava un’onza (relativamente poco, cioè il salario di un mese di un bordonaro). Ma come erano le case dei nostri antenati? Giuseppe Pitré[2] riferisce della situazione di Vittoria ai primi del Novecento traendo le informazioni dalla ricerca del dottor Arcangelo Mazza (vedi oltre). La tipologia individuata da Mazza riguarda le case dei meno abbienti a Vittoria ai primi del Novecento, ma penso che così dovessero essere le case dei poveri nel Sei e Settecento, chiamate tecnicamente casuncule.
Nei riveli sono dichiarate le case (ad uno o più corpi), le botteghe, i magazzini, le vigne, i palmenti etc., senza molti particolari. Invece i particolari si trovano a volte negli atti di vendita o di donazione, da cui si ricavano notizie sulla consistenza degli immobili, che ci interessano in questa sede. Ma vediamo ora cosa emerge dai documenti dell’epoca presa in esame.
Innanzi tutto, la casa poteva essere in proprietà o a lueri, cioè in affitto. Nei primi tempi furono usate come casa anche alcune grotte (tarì 15 annui di affitto nel 1623), come quella che Paolo Custureri dichiarò di possedere nel 1616 nel quartiere di San Giovanni (nei pressi dell’antica chiesa di San Giovanni, oggi detta della Trinità), o quelle fuori paese di Andrea Terranova (forse sotto l’attuale piazza del Popolo), dove nel 1630 furono tenuti in quarantena i “turchi”[3] scampati al naufragio della loro nave, schiantatasi sugli scogli a Cammarana: ma si tratta di eccezioni, per Vittoria. Qualche notizia in più sulla consistenza delle case, è possibile estrarla dagli atti notarili del periodo 1653-1682. In quel trentennio furono vendute o donate 135 case, con annessi 7 luoghi di case e 15 casaleni[4], 10 pozzi e 29 orti. 18 inoltre furono i tenimenti[5] e i palazzi trasferiti in proprietà, 27 i magazzini e dispenze e 38 le botteghe, con 21 palmenti nelle campagne. Si tratta di case assai diverse da quelle descritte da Salomone Marino. Alcune delle case erano molto grandi (Blandano Magro emancipò il figlio nel 1670, donandogli dieci corpi di case, dispensa ed orto) e parecchie di esse avevano anche «horto, puzzo et altri commodità». Esistevano anche parecchi tenimenti di case «cum portico, cisterna, stabulo et aliis commoditatibus» e abitazioni con orti collaterali. Almeno in un caso, una casa terrana aveva «solaro e tetto sopra detto solaro», in un altro si trattò di una grande casa di tre stanze, «cioè sala, camera, cucina e dispensa collaterale (con frumento e botti)». Esistevano anche case utilizzate come stalle o magazé (in latino «horreum», propriamente granaio ma la parola latina indica il dialettale dispenza, con le botti), mentre gli orti potevano essere staccati dalle case ed essere venduti a parte come luoghi di case.
Anche se sappiamo poco delle tecniche di costruzione, esse erano realizzate in pietre, legate da malta di fango (taiu): nei riveli si scrive che le case erano «murate di rina e terra» (nel Seicento), mentre nel 1714 erano anche valutate a travate (da 3 a 12), cosa che ci permette anche di misurarne la lunghezza, se consideriamo la distanza tra una e l’altra trave.
Un’idea sui materiali e sulle tecniche di costruzione degli edifici nel Seicento, ce la dà un documento relativo agli interventi fatti nel Castello in occasione della venuta di Giovanni Alfonso Enriquez e della moglie nell’ottobre 1643. Per accogliere il viceré, furono eseguite numerose modifiche alla preesistente costruzione, realizzata nel 1607. Da quel che si deduce dal documento riportato da Raniolo e relativo alle spese fatte dal secreto Guglielmo Puy, sopra una delle grotte (dammuso), rimessa a nuovo e chiusa con una porta, furono realizzate una cucina ed una anticucina, con due sostegni (ddàrfini) per la scala (per salire o per scendere?); nella cucina furono costruiti un forno ed una tuccena (ripiano) in gesso; la vecchia cucina fu trasformata in camera e la porta che dava nel corridoio fu murata; il tetto ed il solaio della cucina furono rifatti con 500 canne nuove; allo stesso modo nelle altre camere furono realizzati dei tetti morti, utilizzando 8 cannizzi, tenuti insieme da chiodi e giunti.
Furono anche rifatti i tetti del Castello e del magazzino, impiegando 12 metri lineari di sostegni in pietra, per le tegole (ciaramidi): ne occorsero due migliaia per il Castello e un migliaio per il magazzino ma 600 tegole, quelle sistemate sul tetto dell’anticucina, furono però prese dalle Case della Corte, per risparmiare. Il tetto fu poi completato con 22 canni (44 metri lineari) di canaloni e con 9 canni (18 metri lineari) di catusi, per realizzare il condotto per la raccolta dell’acqua piovana dal tetto all’apposita cisterna. La malta fu realizzata con gesso e taffuni (zolle di terra), mentre i cantoni e le soglie di tutte le porte e le finestre furono realizzati a regola d’arte con pietra. I telai furono costruiti in legno d’abete e cera, mentre il portone del Castello fu ricostruito in legno di quercia, mandato a prendere a Mazzarrone per ordine del castellano Grimaldi. Tutte le porte furono completate con le necessarie fermature seu maschi. Come si vede, non siamo in presenza di un’umile casa terrana e vengono usati materiali di prima qualità. Però il documento ci indica i materiali usati e ci conferma che abbondante era l’uso della pietra da intaglio per porte e finestre; che i tetti venivano realizzati con canne e gesso e coperti da tegole; e che molta attenzione si poneva a grondaie e impluvi: insomma questo era il modo di costruire.
Rinviando al mio lavoro intitolato “La civiltà materiale” a Vittoria tra Sei e Settecento” (on line sul kindle store di amazon) per altre notizie, voglio qui passare in rassegna altre notizie sulla consistenza interna di alcune abitazioni a Vittoria.
[1] Dammusu è propriamente un ambiente a pian terreno, in genere al di sotto del livello della strada, ma indicava anche lo spazio ricavato tra la volta ed il tetto, usato come ripostiglio, cioè la soffitta.
[2] Giuseppe Pitré, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Il Vespro 1978.
[3] Con il termine “turco” veniva chiamata qualsiasi persona venisse dall’Oriente.
[4] Casaleno indica una casupola ma anche una struttura muraria incompleta o abbandonata.
[5] Tenimento indica una grande casa in più stanze tutte però a pianterreno.
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