Dicono molti storici che la diversità tra la Sicilia centro-occidentale e quella orientale risieda nella diversa distribuzione e frammentazione della proprietà. E se Tocqueville giudicò che il grande progresso del vigneto etneo era dovuto alla frammentazione della proprietà ecclesiastica sulle pendici dell’Etna, allo stesso modo l’esistenza della piccola e media proprietà nell’antica Contea di Modica nasce dal grande processo di enfiteusi portato avanti dagli Enriquez-Cabrera dopo il 1550. A questa verità inoppugnabile, pur non avendo io alcuna competenza specifica (e chiedo venia e comprensione per eventuali errori), volli dare nei primi anni ’90 un mio modestissimo contributo. Mi convinsi infatti che tale grandioso processo di frammentazione del feudo modicano a mio avviso era scaturito da due fatti: il primo da un matrimonio, che portò in Spagna l’ultima contessa di Modica, con la conseguenza che la lontananza dei Conti rafforzò il processo di formazione della classe dirigente della Contea, creò cioè un gruppo di amministratori capaci; il secondo fatto a mio avviso fu che l’avvio definitivo del grandioso processo di enfiteusi fu la conseguenza del fallimento di una proposta di permuta avanzata dai Conti a Carlo V. All’allontanamento dei Conti da Modica dedicai un volumetto; al documento del 1549 alcuni articoli.
Ecco l’introduzione al primo lavoro:
Le ricerche delle spoglie di Vittoria Colonna[2], Contessa di Modica e fondatrice della città di Vittoria, svolte nel 1989 nella Chiesa di San Francisco a Medina de Rioseco, oltre ad essere state coronate da successo, hanno portato ad altre scoperte. Gli scavi[3] hanno infatti offerto altre tracce della famiglia Enriquez, perché si è rivelata anche luogo di sepoltura, per sé e i suoi, dell’almirante di Castiglia Federico Enriquez e della moglie Anna Cabrera, ultima contessa di Modica della famiglia di Bernardo Cabrera, che della Contea aveva avuto l’investitura nel 1392. I coniugi Enriquez-Cabrera, ferventi francescani, ottennero dal Papa l’autorizzazione a fondare la chiesa e il convento attiguo nella capitale dei loro stati il 12 agosto 1491 e la costruzione venne benedetta il 19 giugno 1520, secondo i cronisti dell’epoca, in un periodo, come vedremo assai tumultuoso[4].
Il tempio, oggi restaurato anche grazie al nostro impegno, è assai modesto all’esterno, ma fastosissimo all’interno, con uno splendido retablo mayor, delimitato ai lati da due statue bronzee raffiguranti una Anna Cabrera, l’altra la sorella Isabel Cabrera, entrambe in ginocchio a mani giunte, con gli occhi fissi sul tabernacolo e vestite a la usanza de la Reina Catolica, cioè Isabella di Castiglia, sotto il cui regno vissero parte della loro vita.
Ai piedi di questo magnifico altare, al centro della navata, gli scavi hanno rinvenuto il sepolcro di don Fadrique [Federico] Enriquez e della sua sposa Anna. Si tratta di una sepoltura piana, umilissima, che egli nel suo testamento ordinò dovesse essere coperta solo da una lastra di diaspro alzata dal suolo cinque dita con lettere scolpite che dicessero: «Esse stanno dove meritano e io dove merito». Segno di umiltà e di grande affetto nei confronti delle due donne, rispettivamente moglie e cognata, destinate a dominare dall’alto il tumulo del congiunto.
Erroneamente il dr. Solarino[5] attribuisce tale frase all’Almirante Luigi I, successore di don Fadrique. Invece rispetto al suo successore, il personaggio “indagato”, ci si è rivelato di grande importanza. All’interno della fossa sono stati identificati con certezza i resti di donna Anna Cabrera, fra cui il cranio, con un gruppo di spilli che dovevano servire ad appuntare la cuffia e una moneta da quattro maravedis dei Re Cattolici, oltre ad abbondanti frammenti di legno e numerosi chiodi che hanno permesso di ricostruire la forma della bara, interrata in una fossa rivestita di mattoni.
Ma chi furono questi due coniugi, padroni della Contea di Modica per quasi un cinquantennio, quale ruolo ebbero nella sua storia e in quella più generale della Spagna? Sono questi gli interrogativi cui abbiamo cercato di dare risposta con le nostre investigazioni storico-biografiche.
Ancora una volta la fortuna ci è stata amica, dandoci la possibilità di rintracciare in una chiesa di Alcamo uno splendido dipinto che raffigura i due coniugi. Abbondanti riferimenti abbiamo poi riscontrato in una numerosa serie di opere storiche sulla Spagna dei Re Cattolici e dei primi anni di Carlo V. Di queste opere è fatta puntuale rassegna nelle note.
Questa lavoro è dedicato alla provincia di Ragusa, l’antica contea di Modica, dove in maniera massiccia, all’alba del Rinascimento, il fenomeno delle censuazioni e dell’enfiteusi portò un nuovo progresso e la nascita di nuclei di borghesia attiva e intraprendente. Nella Contea il feudalesimo non finì nel 1812, ma assai prima, già nel corso del XVI secolo. Anche in conseguenza di un antico matrimonio…
Ecco l’indice:
1.Le conseguenze di un antico matrimonio
2.Gli Enriquez
3.I Cabrera
4.Un matrimonio come affare di stato
5.Il trasferimento in Spagna
6.La Spagna in guerra contro i Mori: l’ultima crociata
7.Da Granada alla crisi istituzionale degli anni 1504-1506
8.Gli ultimi anni di re Ferdinando (1506-1516)
9.Cura degli affari domestici (1511-1520)
10.Inizio di un nuovo regno. La rivolta dei Comuneros e le guerre d’Italia (1517-1525)
11.Gli ultimi anni di don Fadrique, fra politica e misticismo (1525-1538)
12.Il testamento di don Federico e gli alumbrados (1538)
13.Epilogo
Appendice 1. Cristoforo Colombo, le Capitolazioni di Santa Fe e gli Ammiragli Enriquez
Appendice 2. I Capitoli nuziali di Anna Cabrera e Federico Enriquez
Appendice 3. Monete in corso nel XV secolo in Sicilia e in Castiglia
Ed ecco qualche stralcio:
1.Le conseguenze di un antico matrimonio.
Scrive Leonardo Sciascia[6] che Alexis de Tocqueville «in un rapido viaggio che fece in Sicilia nel 1827, acutamente intuì le cause che facevano desolate le terre e grama la vita degli abitanti della Sicilia occidentale e quelle che, al contrario, rendevano rigogliose e ridenti, popolate e di più prospera vita, le campagne tra Messina e Catania. Il frazionamento della proprietà in queste, il permanere del vasto latifondo in quella». Di ciò Tocqueville dà merito all’Etna: poiché quelle terre «sono soggette a spaventose devastazioni, i signori e i monaci se ne sono disgustati e il popolo ne è diventato proprietario. Ora la divisione dei beni vi è quasi senza limiti. Ognuno ha un sia pur minimo interesse nella terra. E’ la sola parte della Sicilia dove il contadino è possidente». Ma qualcosa di simile- per umana volontà, non per eventi di natura- era avvenuto anche nella Contea di Modica. Nota infatti Sciascia che qui «il contadino non vi era proprietario a pieno titolo, ma una forma di enfiteusi non gravosa, revocabile soltanto per il mancato pagamento del canone e trasmissibile in eredità, creava una condizione di interessato attaccamento alla terra quasi se ne avesse la piena proprietà. Attacamento volto non solo a un accrescimento del reddito, ma aperto a un sagace reinvestimento di una parte di quel reddito in opere di miglioria, di bonifica: che secondo il viceré Caracciolo era appunto quel che ci voleva, ma quasi nessuno pensava a fare, per l’agricoltura siciliana». Così scriveva nel 1856 l’avvocato Filippo Garofalo:
«Invero la Contea di Modica, composta negli ultimi tempi di sei vaste popolazioni, che sin dall’epoca normanna aveva ottenuto la divisione di terre con enfiteusi, meno delle altre baronie di Sicilia soggetta a dritti angarici e soprusi feudali, governata da un conte lontano con generosità da sovrano, con esercizio delle giurisdizioni civili, era da riguardarsi come un piccolo regno nel regno. Risiedeva in Contea un Governatore con un Tribunale di gran Corte ed una Curia di appello per le cause civili e penali, Avvocato e Procurator fiscale, Protomedico, Protonotaio, Maestro giurato, Maestro portolano, Maestro segreto, guardie di alabardieri, e si aveva facoltà di nominare Notai e Aromatari…Le concessioni di terre incominciano a vedersi nel 1452 nei Ruoli o quaderni segreziali…»[7].
Nota Sciascia: «A differenza, insomma, che in altre terre baronali, e meglio che nelle terre demaniali, nasceva una borghesia…».
«Ogni stacco di terra- continua il Garofalo- avea infisso il quanto dovea pagare, come le mandre (di bovini, di pecore, di capre) e le porcherie (allevamenti di porci) situate in diversi punti del territorio: il possessore non veniva espulso che alla mancanza di pagamento: gli eredi subentravano in suo luogo alla morte, ed in mancanza di accettazione dell’eredità e in caso di espulsione…solamente se ne dava ad altri il possesso».
Abbiamo voluto riportare a fianco queste considerazioni perché esse ci sembrano assai calzanti per descrivere la particolarità della Contea di Modica e quindi dell’odierna provincia di Ragusa. La frantumazione antica del feudo, tramite il contratto di enfiteusi, parcellizzò la proprietà della terra, creando una classe media di proprietari borghesi e di coltivatori che hanno nel tempo reinvestito in bonifiche e migliorie parte del reddito[8].
La nascita di questa borghesia e il fenonemo dell’enfiteusi[9] sono stati studiati ampiamente da Enzo Sipione[10] e da Giuseppe Raniolo[11], entrambi appassionati storici delle “Istituzioni” della Contea. Il processo di frantumazione della proprietà, iniziato secondo il Garofalo ai tempi dei Normanni, sviluppatosi nel corso dei tumultuosi decenni del XV secolo, ebbe la sua acme tra il 1550 e il 1564, quando il conte Luigi I, prima tramite procuratori, successivamente tramite il figlio, Luigi II, procedette alla assegnazione di un assai cospicuo numero di partite di terreno, ben 1710, che andavano da stacchi di una o due salme di terra alle maggiori di quaranta-cinquanta salme di terra ciascuna. In pratica furono allora alienate 15.000 salme di terra, pari a circa 45.000 ettari. Altre centinaia di salme furono assegnate nei decenni seguenti nel feudo di Boscopiano e poi all’atto della fondazione di Vittoria, dal 1607 in poi. Oggi sappiamo che questa decisione derivò dal fallimento delle trattative per la vendita della Contea a Carlo V[12]. Gli Enriquez-Cabrera, assai indebitati, preoccupati di non poter controllare questo loro lontano patrimonio, nel 1547 volevano permutarlo con altri feudi in Spagna. Non essendo riusciti nell’intento, anche per una relazione negativa che il viceré Juan de Vega mandò al sovrano, si decisero ad affittare in maniera assai più massiccia di prima le loro terre, per trarne terraggi (frumenti che alimentassero il diritto di esportazione franca delle famose 12.000 salme concesse a Bernardo Cabrera) e denari liquidi provenienti dai censi, con cui pagare i loro enormi debiti e mantenersi nel loro rango.
La frammentazione del feudo nell’antica Contea di Modica fu dovuta quindi più al caso che non ad una intelligente politica dei feudatari proprietari, i quali, per la loro lontananza (anche se non assenteismo), non poterono mai controllare i loro possessi direttamente come gli altri baroni, che invece potevano applicare la soffocante giurisdizione feudale che consentiva pochissimi progressi economici e sociali. Forse mai come in questo caso la lontananza del feudatario produsse tanti benefici effetti. E lontani i Conti lo erano veramente, perché dal 1484 risiedevano in Castiglia, avendo abbandonato il Castello di Modica per Medina de Rioseco, capitale degli stati dell’Almirante di Castiglia don Federico (Fadrique in spagnolo), che nel 1481 aveva sposato l’ultima erede Cabrera, la contessa Anna, i cui resti mortali sono stati rinvenuti nella chiesa di San Francesco a Medina.
Di questo matrimonio così importante per la vita della Contea, possediamo i capitoli nuziali[13], cioè gli accordi che furono stilati in occasione di questa unione così pregna di benefici economici e sociali per la nostra zona. Il documento, scritto in latino, siciliano e catalano, è in gran parte pubblicato in appendice con la traduzione delle parti in latino e in catalano[14].
Ma prima di entrare nel merito del contenuto, vorremmo parlare sommariamente delle famiglie Enriquez e Cabrera e del modo in cui si addivenne a questo matrimonio.
…
4.Un matrimonio come affare di stato
Tre anni dopo, nel 1477, prima che il nuovo viceré Cardona prendesse possesso del suo incarico e sostituisse i due viceré Guglielmo Pujades e Guglielmo Peralta, «murio don Juan de Cabrera conde de Modica siendo nino…». Così Zurita scrive nel capitolo XIV del libro XX dei suoi Annali della Corona d’Aragona, intitolato De lo que el Rey proveyo en la sucesión del condado de Modica.
La nostra vicenda ha dunque l’onore di un intero capitolo nella ponderosa opera di Geronimo Zurita. Seguiamone gli sviluppi leggendolo in traduzione.
«Il conte don Giovanni II di Cabrera morì il primo settembre di quest’anno, e lo stesso giorno i viceré Guglielmi diedero l’investitura dello stato a donna Anna di Cabrera sua sorella, che era giovane di diciotto anni, per lei e i suoi eredi. Era quello stato di tanta importanza che conveniva che fosse in mano di persona che amasse il servizio del re sopra ogni cosa; e oltre ad essere di gran qualità, il suo possesso valeva allora ventimila fiorini di rendita, e aveva diecimila vassalli in grandi città e fortezze lungo la costa a mezzogiorno e poteva porre a capo di quel regno chiunque volesse».
Queste frasi sono assai indicative dell’importanza che si attibuiva al feudo modicano, soprattutto perché sia i Chiaramonte, sia Bernardo Cabrera, partendo da quella notevole base di potenza e ricchezza, avevano aspirato a governare l’intera Sicilia. Per cui non era cosa di poco conto la questione del matrimonio di Anna Cabrera. D’altra parte si erano scatenati appetiti in ogni dove. Ma seguiamo Zurita.
«Intese il re[15] che si doveva guardare con grande attenzione chi dovesse essere a succedere in quello stato; perché i baroni -che erano assai potenti- sempre agivano in modo da non avere superiore, e il re, assai vecchio e tanto esperiente, di nessuna cosa stava con maggior sospetto che in quelle dello stato, e si era inteso che nel tempo passato il re don Fernando di Napoli, appena si era saputo che era morto il conte suo fratello, aveva inviato alla contessa donna Giovanna di Cabrera madre dell’ultimo conte di Modica un cavaliere della sua casa, per ottenere che il matrimonio di donna Anna si facesse con uno dei suoi figli, e si capiva che ora aveva lo stesso desiderio, e si sospettava che per denaro la cosa non sarebbe sfuggita al re [di Napoli].
Avvertivano questi viceré che il re considerasse quanto amaro da inghiottire sarebbe stato quel boccone e che aprisse bene gli occhi e intendesse che il re [di Napoli] suo nipote non aveva pensato né pensava ad altro se non a come iniziare a impadronirsi della Sicilia e che poteva riuscirci con quel matrimonio…Tutti subito posarono gli occhi sull’infante don Enrico, però il re sapeva bene, come aveva appreso dagli stessi siciliani durante la sua giovinezza[16], che non desideravano più ardentemente che avere un re che risiedesse là e uno tale come l’infante don Enrico della casa d’Aragona; e sembrava che tenendo la contea di Modica, qualche volta gli sarebbe passata per la testa la fantasia di farsi re e signore di tutto».
«Il re apprese la notizia della morte del conte di Modica mentre era a Barcellona; e come gli si presentò la inopportunità che da un lato il re don Fernando [di Napoli] suo nipote riuscisse ad ottenere questo matrimonio per un suo figlio, e dall’altro lato che il conte di Prades, già nella carica di viceré in quel Regno, per il diritto che vantava su quello stato per parte della contessa sua moglie[17], pretendeva che si sposasse con don Fernando de Cardona suo nipote figlio del contestabile d’Aragona suo figlio e di donna Aldonza Enriquez zia del re di Castilla e che l’infante don Enrico insisteva in ogni modo, deliberò di farla sposare con don Alfonso d’Aragona suo nipote, figlio naturale del re di Castiglia[18]».
«E per giustificare la trattativa che era necessaria e impedire che in Sicilia si tentasse insolentemente di far sposare la contessa, il re si servì di uno stravagante stratagemma; e fece sapere che lui in persona voleva sposare la contessa, perché il re di Castiglia non aveva figli maschi [legittimi]…; e perciò scrisse alla contessa di Modica sua madre. Ci fu una gran cura di preparare bene la cosa perché si fece sapere che la contessa donna Giovanna sua madre avrebbe sposato don Leonardo d’Alagona marchese d’Oristano e la contessa donna Anna il figlio del marchese; e poiché già il re di Castiglia aveva deciso che il conte di Modica [Giovanni] fratello della contessa Anna sposasse donna Giovanna d’Aragona sua figlia e don Alfonso d’Aragona suo figlio donna Anna di Cabrera sua sorella che ora succedeva nello stato, si stabilì di effettuare subito il matrimonio di don Alfonso».
«Questo fatto giunse a tanta notorietà che ricevendo il conte di Cardona le lettere del re come novello sposo di una fanciulla che ancora non aveva diciotto anni mentre il re ne aveva ottanta, con le lettere inviò, dove stavano la contessa e sua figlia, Gerardo Agliata protonotaro del regno e Giacomo Bonanno maestro razionale».
«Ma appena fu intesa la vera intenzione del re, che era che suo nipote sposasse la contessa, e poiché il viceré di Sicilia pretendeva che quello stato apparteneva alla contessa di Prades sua moglie, e il castellano di Amposta, personaggio assai influente nel Consiglio del Re d’altra parte diceva che la successione spettava alla casa di Roccaberti, il re ordinò che il Consiglio di Sicilia esaminasse la questione e fu accertato che lo stato di Modica apparteneva di diritto alla contessa donna Anna».
«E per dare conclusione alla vicenda di questo matrimonio il re inviò in Sicilia il suo segretario Antonio Geraldino; però successe che sebbene i re [Giovanni e Ferdinando] desiderassero in ogni modo che il matrimonio di don Alfonso d’Aragona e della contessa donna Anna si effettuasse, la contessa si sposò con don Fadrique Enriquez figlio maggiore dell’almirante don Alfonso Enriquez».
Così Zurita. Il quale però nulla ci dice di come poté accadere la cosa, di fronte agli intrighi di due potenti monarchi, il re Giovanni sceso in campo a ottanta anni per spazzar via ogni altro pretendente, dal nipote re di Napoli al figlio re Ferdinando che da parte sua, forse senza che il padre lo sapesse, aveva già stabilito un doppio matrimonio con due suoi figli illegittimi. Infine, entrambi coalizzati nel dare come marito alla contessa Anna il loro figlio e nipote don Alfonso, furono sconfitti. Come sia avvenuta la cosa non sappiamo.
Giovanni Evangelista Di Blasi, nel trattare del viceregno di Giovanni Cardona riporta in sunto le notizie tratte da Zurita e così conclude:
«Qualunque ne sia stata la cagione, ogni pretensore ne fu escluso, e piacque agli occhi della donzella Federico Enriquez il primogenito del Grande Ammiraglio di Castiglia, che la sposò». L’autore farebbe intendere che la fanciulla vide con i suoi occhi il futuro sposo, così come confermerebbe Caruso (Mem. stor. lib. IV, t. III pag. 82 citato in Di Blasi)[19], secondo il quale
«questo Cavaliere trovavasi a caso in Sicilia, dove era venuto per alcuni suoi affari». La presenza in Sicilia di Federico Enriquez appare pertanto certa. Ma per quale motivo? Il motivo, in effetti, l’avremmo trovato, solo che non coincidono le date. Le vicende or ora narrate presuppongono la presenza di don Fadrique in Sicilia durante il 1478, mentre la spiegazione da noi trovata, secondo il cronista Pulgar, risalirebbe al 1481. Ma noi sappiamo che già in quell’anno il matrimonio era consumato e i coniugi risiedevano a Modica. Per cui l’episodio narrato da Fernando del Pulgar è credibile se va anticipato al 1477[20]. Di che si tratta?
Il capitolo CXXI della Crónica de los Reyes Católicos narra che:
«Trovandosi la Regina a Valladolid, una notte in cui c’era festa nel suo palazzo, il figlio maggiore dell’ammiraglio, che si chiamava don Fadrique, venne a parole con il signor di Toral, che si chiamava Ramir Nuñez di Guzman, per l’assegnazione dei posti vicini alle dame; da quelle parole don Fadrique si sentì ingiuriato, perché Ramir Nuñez a parole gli si era ugugliato».
La Regina, informata di questo incidente e temendo sgradevoli conseguenze, fece arrestare i rivali nei loro rispettivi domicili e «pose tregua tra di loro, ed ordinò che la rispettassero, salvo pene in caso contrario». Pensando di farsi giustizia con le sue mani, don Fadrique invece si assentò dalla corte, per evitare che gli fosse notificato l’ordine della sovrana; in base a ciò, questa ordinò di «liberare Ramir Nuñez, e gli assicurò che non avrebbe ricevuto né danno né ingiurie». Pochi giorni dopo, mentre Nuñez de Guzman cavalcava per la piazza della città, fidando nell’assicurazione della sovrana, gli si fecero incontro tre uomini mascherati che lo bastonarono. Conosciuto l’insolito modo di procedere, la regina Isabella, indignata, montò a cavallo e senza alcuna scorta né di dame né di cavalieri, si diresse, sopportando la forte pioggia che cadeva, alla vicina città di Simancas, residenza dell’ammiraglio. Giungendo alla fortezza, la regina Isabella disse a don Alfonso Enriquez: «Ammiraglio, fatemi strada da vostro figlio don Fadrique per far giustizia di lui, perché infranse la mia assicurazione. L’ammiraglio le rispose: “Signora, non è qui, e non so dove sia”. La Regina gli replicò: “Dal momento che non potete consegnarmi vostro figlio, consegnatemi questa fortezza di Simancas e la fortezza di Rioseco”. Don Alfonso consegnò le due fortezze e, timoroso della «irritazione e della indignazione» della regina Isabella, decise di cercare suo figlio e di consegnarglielo. Il connestabile di Castiglia, fratello della madre di don Fadrique, tentò di intercedere per suo nipote e lo condusse a palazzo, ma la regina non volle riceverlo, nonostante le parole accorate del contestabile: «Signora, ho portato qui don Fadrique, mio nipote, e lo consegno a Vostra Signoria, perché faccia di lui ciò che riterrà; però umilmente la supplico di considerare che non ha ancora vent’anni, e che a questa età non è ancora ben capace di conoscere la sottomissione e l’obbedienza che si deve agli ordini reali: faccia Vostra Altezza di lui, o la giustizia che vuole, o la misericordia che deve».
Isabella, dura di carattere e inflessibile sul concetto di lesa maestà, ordinò che lo conducessero nella fortezza di Arévalo, dove rimase senza poter comunicare con nessuno. «Dopo alcuni giorni che era stato preso -ci dice Pulgar-, considerato che era cugino del re, fu liberato, ed esiliato nel regno di Sicilia; e gli fu ordinato dalla regina di non entrare in Castiglia senza suo ordine, a rischio di gravi pene». Così come ce le narra Pulgar, queste notizie sembrerebbero vere. Ma altri riscontri ci danno invece la certezza che il cronista ha costruito una bella storia lavorando un po’ di fantasia su fatti veri, ma che non si svolsero così come rcconta il cronista.
La Guida all’Archivio Generale di Simancas, una pubblicazione del Ministero della Cultura spagnolo, nell’introduzione, ci fornisce degli utili chiarimenti alla narrazione di Hernando del Pulgar. Il castello di Simancas, sede di uno dei più prestigiosi archivi del mondo, risale ai primi anni del decennio 1470-1480, e fu completato dall’almirante don Alfonso (nella cappella di stile gotico fiorito, che abbiamo avuto la fortuna di visitare, sono scolpiti gli scudi delle famiglie Enriquez e Velasco).
La fortezza fu ceduta ai Re Cattolici al termine della sua costruzione, nel settembre 1480. Don Alfonso diede ai sovrani il possesso del castello e della città di Simancas «e del suo territorio e giurisdizione…in virtù di una certa grazia che i detti signori Re e Regina gli avevano fatto», perché «le Loro Altezze gli avevano promesso di dargli in cambio altre cose, così come è stabilito nell’accordo fatto». Si era convenuto infatti che i Re avrebbero dato a don Alfonso «un certo numero di vassalli con una certa rendita», ma non avendo fatto tale donazione, concordarono con l’almirante don Federico, figlio di don Alfonso, che era già morto, di dargli in cambio dodici milioni di maravedis; ma non avendogli potuto pagare questa somma per la crescita delle spese della guerra di Granada nell’anno 1489, concordarono di dargli in compenso un vitalizio ereditario di 300.000 maravedis e 900.000 maravedis l’anno ad esaurimento, con un interesse del 10%. Il pagamento fu comunque ultimato poco tempo dopo, il 15 febbraio 1490 (da quel giorno cominciò a decorrere il vitalizio) e la fortezza fu consegnata da don Fadrique il 16 marzo. Pertanto dal settembre 1480, data in cui fu ultimata la fortezza, fino al marzo 1490, Simancas rimase in mano agli Enriquez, che intesero «tenerla e stare in essa in nome del Re e della Regina e per essi, in pegno e garanzia, fino a quando le Loro Altezze non adempissero a ciò che avevano concordato tra di loro». Dunque nessuna cessione forzata ci fu del castello, ma solo un acquisto forzoso. Dobbiamo pertanto mettere in dubbio anche il “romantico” esilio in Sicilia? Forse no. Pulgar ha solo abbellito un fatto realmente accaduto, al fine di far risaltare con nettezza la risolutezza della regina Isabella. A quanto possiamo leggere nel preambolo delle capitolazioni matrimoniali fu Ferdinando a proporre alle contesse Federico come marito di Anna, con buona pace di quel «piacque ai suoi occhi», romaticheria ante litteram del settecentesco Caruso riportato da Di Blasi. Ma chi ci può impedire di supporre che Ferdinando si mosse anche su sollecitazione del cugino, esiliato in Sicilia e forse venuto a contatto con le due donne o solo a conoscenza di ciò che si stava muovendo intorno ad una delle maggiori ereditiere del suo tempo?
Uno dei documenti che esamineremo ora smentisce, ove ce ne fosse ancora bisogno la data (il 1481) del racconto del Pulgar. Infatti nel maggio 1481 la complessa trattativa, iniziata durante il 1478, era terminata e il matrimonio risulta già consumato. Mi sembra difficile che in questo frangente così delicato per don Federico, si sia potuto verificare l’episodio che gli sarebbe costato l’esilio, ma fece di lui uno dei più grandi feudatari di Sicilia.
Dobbiamo allo studioso Andrea Guarneri, uno dei fondatori della Società Siciliana di Storia Patria, Senatore del Regno, la pubblicazione e lo studio, fatti nel 1885, del documento, composto di «quattro larghe pergamene…vergato in parte in latino, nella maggior parte in volgare siciliano, ed in parte in catalano; trovandosi l’idioma latino nelle forme ed atti notarili…il siciliano nel testo dei Capitoli o patti nuziali, ed il catalano nell’approvazione che fa il Re dei cennati Capitoli».
Il testo, si compone di otto parti, che sono le seguenti:
1) introduzione con la narrazione delle trattative intercorse fra le parti, in buon latino;
2) approvazione (in catalano) da parte del Re Ferdinando dei Capitoli e patti nuziali redatti a Modica, che sono in puro dialetto siciliano, con l’accettazione da parte della contessa Giovanna Cabrera in suo nome e per conto della figlia, con la data del 5 febbraio 1479;
3) atto di ratifica da parte del Re dei Capitoli, con alcune riserve, datato Toledo 21 luglio 1480, in vecchio catalano;
4) atto notarile che raccoglie il giuramento dei Capitoli da parte di Alfonso e Ferdinando Enriquez, in latino e con data Toledo 29 luglio 1480;
5) atto notarile di replica del giuramento fatto in Modica da Andrea Badaluc per conto del Re, e da Ferdinando de Iohara per conto degli Enriquez da un lato, dall’altro dalle contesse madre e figlia, in latino, con data 18 dicembre 1480;
6) atto di deposito a Barcellona in data 14 settembre 1481 dell’atto notarile recante l’immissione in possesso della città di Tamariz, in latino;
7) atto di consegna e d’immissione in possesso della suddetta città, fatto da don Alonso Enriquez alla contessa Cabrera, e per essa al suo incaricato Giovanni Ferrer. Il documento reca la data del 23 maggio 1481, è scritto in catalano e a questa data il matrimonio risulta già consumato in Sicilia, giacché l’almirante don Alfonso chiama donna Anna non solo con i suoi titoli, ma anche come sua figlia: My Fya.
8) l’ultima parte è un verbale con il quale si constata la composizione del documento.
In appendice sono pubblicate le parti più importanti. Dalle date dei documenti si evince come il vecchio Giovanni II, che pure aveva escogitato quell’astuto stratagemma per allontanare i pretendenti scomodi, sia stato completamente soppiantato dal figlio nella gestione di questa complicata vicenda. In effetti l’intervento di Giovanni sembra strano, in considerazione del fatto che vero e unico re di Sicilia era dal 1468 Ferdinando, al quale dunque spettava ogni decisione come signore feudale in merito al matrimonio dei suoi sudditi, specie quando questi dovessero sposare degli stranieri. In verità vigeva ancora, dice il Guarneri, una costituzione dell’Imperatore Federico II, che riprendeva una legge normanna, che vietava «ai conti, baroni o semplici cavalieri…di poter maritare le figlie, sorelle, nipoti, e sinanco i figli senza il permesso sovrano. …Un’altra costituzione avea proibito i detti matrimoni cogli esteri ed alienigeni…e ciò sotto pena della confisca di tutti i beni». Ma aggiunge Guarneri, mentre la prima norma era stata cancellata nel 1288 dal re Giacomo, sembrerebbe che ancora al tempo del re Ferdinando la seconda, quella cioè che vietava il matrimonio con stranieri senza il permesso del Re, fosse in vigore. Può darsi quindi che sfruttando questa norma, Ferdinando, quale unico e legittimo sovrano di Sicilia abbia spiazzato il padre e imposto il matrimonio, come riferisce Zurita, tra Anna e il figlio illegittimo Alfonso, dopo aver dovuto rinunciare per la morte del conte Giovanni al matrimonio dell’altra figlia illegittima Giovanna. Ferdinando li aveva avuti entrambi prima del 1469, anno delle nozze con Isabella di Castiglia.
A quanto è scritto nel preambolo, come già abbiamo avuto modo di ricordare, le due donne avevano accettato un matrimonio con il principe Alfonso, sentendosi onorate dall’attenzione del Re.
Ma ad un certo punto il Re aveva cambiato idea e proposto il matrimonio con l’Enriquez. Cosa era successo? Probabilmente o la richiesta di Federico, allora come si è detto in Sicilia, oppure una scelta politica precisa di Ferdinando, per mettere in quel feudo un cugino di cui si poteva fidare. Ferdindando dovette anche giustificarsi con le contesse per aver cambiato candidato, preoccupandosi di evitare possibili lamentele delle due donne, affermando che il suo affetto per Federico, suo primo cugino, era pari a quello che aveva verso il figlio Alfonso, tanto è vero che esse dicono: «Et quantu ali justificacioni et raxuni li quali la dicta Magesta descrivi et recita pir lu equalamentu di lu matrimoniu dilu Illustrissimu Signuri don Alonsu figlu di la dita Magesta et lu matrimoniu di lu dictu don Fridericu li prefati contissi non fanu altru replicatu ne risposta si non che stanu cuntenti di tutto et quantu la dita Magesta ordena e comanda…Stanu li dicti contissi assay consolati chi la dicta Magesta dica chi non mayuri amuri et dilecioni porta a lu dictu Illustrissimu Signuri don Alonso so figlu chi alu dictu don Fridericu so primo hermano».
Il cambio fu indifferentemente accettato. Ciò che importava era il favore del Re. Alfonso, che all’epoca delle trattative non aveva neanche dieci anni, forse era già stato avviato alla carriera ecclesiastica, tanto è vero che sarà nominato dal padre arcivescovo di Saragozza nel 1482.
Ma nonostante l’umiltà e la sottomissione apparente delle due donne alla volontà del Re, i patti furono leonini. Ancora oggi ci si chiede come le due contesse abbiano avuto la forza o l’arroganza di fare quelle proposte e come sia il Re che gli Enriquez li abbiano potuti accettare. Dobbiamo appunto al Guarneri un’analisi scrupolosa dei contenuti, che riportiamo sommariamente.
Dalla lettura dell’introduzione traspaiono le grandi difficoltà in cui versa la situazione patrimoniale delle due contesse, gravate da debiti e da pignoramenti che mettevano in pericolo la stessa sopravvivenza della casa Cabrera.
Ecco perché il matrimonio portato dal Re non potrà non essere «si non profectusu, et assay utili a casa loru, havendu firma spiranza li dicti contissi… chi reintigrira la casa, fachenduli restituiri tutti li terri, villi, et casali, ed altri beni occupati pir terzi pirsuni».
D’altro canto «li dicti contissi non bastarianu da loru recuperari lu Statu di Cathalogna, ne susteniri quillu di Sicilia, ne obteniri victoria di tanti quistioni…», ecco perché «aspettanu di la prefata Magesta per mezzu di lu antefactu matrimoniu…lu multu e special faguri, ajutu, et indrizu».
«Supplicanu…li prefati contissi, poichi su donni, vidua et di minuri etati, senza aiutu ne consiglu di persona alcuna, si non solimenti di la dicta Magesta…», che abbia per loro «ispeciali guardia et custodia comu e bonu signuri e patri pri quilla clemencia et humanitati, la quali la dicta Magesta avi costumatu demostrari circa la conservacioni et beneficiu di casa loru».
Sembrerebbero due povere donne supplici. Invece: «In lu tempu chi vivia lu condam illustri conti di Modica, patri di la ditta donna Anna, haviria potutu intrari pri matrimoniu in la majuri casa chi fussi sub potestati di la ditta regia Magesta», con ciò intendendo dire che…si degnavano di imparentarsi con l’Enriquez. D’altra parte le vicende narrate da Zurita danno ragione dell’orgoglio delle due donne, al centro degli interessi di ben quattro corti: Napoli, Aragona, Castiglia e Sicilia. Dopo aver descritto la consistenza dei feudi e delle rendite, ricorrendo ad una antica norma del diritto germanico, chiedono che alla dote sia aggiunto il cosidetto «criscimentu di doti», cioè un contributo alla dote stessa conferito dallo sposo. A tale proposito il re stabilirà che sia data dagli Enriquez a donna Anna la città di Tamariz in Catalogna, con tutte le giurisdizioni connesse. Riportiamo ad uno ad uno i singoli capitoli, nel loro contenuto.
1.Allo sposo fu vietato alienare, permutare e pignorare per qualsiasi causa i beni dotali, sotto giuramento e con la garanzia sui beni del padre.
2. Don Fadrique avrebbe ottenuto, alla morte del padre, la carica di Almirante Mayor di Castiglia, e oltre ad essere nominato dal padre erede universale avrebbe subito ricevuto in dono la città di Aguilar, con tutte le sue giurisdizioni civili e criminali, cosa che avrebbe dovuto garantirgli la rendita annua di cinquecentomila maravedis.
3.Sulla base dei testamenti del padre [Giovanni I], del nonno [Giovanni Bernardo] e del bisnonno [Bernardo Cabrera] di donna Anna, lo sposo doveva prendere lu connomu et armi di la dicta casa di Cabrera e il re ordinò che da allora in poi don Federico e i suoi discendenti e successori si sarebbero chiamati Enriquez de Cabrera e nel loro scudo avrebbero inquartato anche le armi dei Cabrera.
4.I frutti delle rendite dei beni dotati, meno una parte da utilizzare per gli alimenti, avrebbero dovuto essere impiegati per il recupero dei beni dei Cabrera alienati o pignorati.
5.Il matrimonio doveva essere consumato in Modica, e gli sposi dovevano abitare nelli terri et castelli di la ditta contissa, ma in vita della madre avrebbero potuto risiedere solo a Modica.
6.Nal caso di morte del marito, alla moglie sarebbero stati restituiti non solo i suoi beni, ma assegnati anche tutti li beni et hereditati di lo dittu don Fridericu ;e che donna Anna avrebbe potuto amministrare tutti quei beni, in aperta violazione delle norme vigenti (il capitolo Si vero contigerit di re Giacomo) sul diritto del suocero o di altri membri della famiglia Enriquez. Ma tutto ciò non bastava, e per quanto riguarda la sua posizione la contessa madre fece la parte del leone.
Essa infatti ottenne:
1. La espressa dispensa dall’obbligo di rendere conto della sua gestione dei beni tutelari negli ultimi anni, dalla morte del marito fino al matrimonio, con la facoltà di accordarsi su qualsiasi questione con la figlia; tutto in deroga o in violazione delle norme vigenti del diritto romano.
2. Il rimborso di tutte le sue spettanze per dote e dotario, per legato del marito o di terza persona; e per garanzia si fece dare in pegno lo stesso castello di Modica, con l’aggiunta di un’entrata mensile pari a tutte le somme spese mensilmente per pagare il salario ai funzionari e ai soldati di vigilanza; con in più gli interessi che andavano maturando.
3. In caso fosse stata recuperata, la città catalana di Palafox le si sarebbe dovuta dare cum tutti li homini et fimini, habitanti et habitaturi in quilli, et delinquenti seu quasi delinquenti, cum iurisdicioni alta e baxa, meru e mixtu imperiu, cum tutti soy renditi, fructi et emolumenti…cum tutti soy altri diritti et preminencii et cum soy territorii, boscaggi, silvi, difisi et molini.
4. Il diritto di abitazione per sé e per l’altra sua figlia Elisabetta [Isabel] nel castello di Modica, pri stancia e securitati, attisuchi la ditta contissa sia vidua e strania di quistu regnu senza terra alcuna di parenti ne di amichi, et pri li casi et sinistri, li quali purianu facilmenti suchediri.
5. L’uso della chiesa e delle cappelle del castello, con l’esclusiva del patronato.
6. La tutela o il baliato dei figli nascituri dal matrimonio nel caso di morte di entrambi i coniugi, con l’amministrazione dei beni materni e paterni; anche ciò in deroga o violazione delle norme vigenti.
7. Nel caso di morte della sola moglie donna Giovanna (per il colmo della misura e vera e propria assurdità giuridica e morale) avrebbe avuto la tutela non dei beni ma delle persone dei nipoti, convenendosi che detta tutela potesse essere esercitata a suo piacimento, mentre il povero genero avrebbe dovuto limitarsi ad dari li alimenti; cosa in deroga non solo alle leggi del Regno ma anche a quelle di natura!
Non paghe dei contenuti, le due donne, ma riteniamo soprattutto la madre, pretesero che i capitoli fossero giurati sui Vangeli prima di tutto dagli Enriquez, cioè dal padre Alfonso, dalla madre Maria de Velasco e dal figlio Federico; quindi dal re, sempre sui Vangeli. Ma poiché l’accettazione e la ratifica erano avvenute lontano dalla sua presenza, donna Giovanna chiese che l’identico giuramente e ratifica fossero rifatte al suo cospetto a Modica, per mezzo di rappresentanti del re e degli Enriquez, cosa che avvenne il 18 dicembre 1480, con in più la rinuncia degli Enriquez di impugnare detti capitoli. Solo per ultime le due donne a loro volta giurarono…
Abbiamo voluto esporre per sommi capi l’intero contenuto del documento, che chiunque, volendo, potrà leggere nella sua interezza, perché esso riveste non solo un’importanza fondamentale per la vita delle nostre zone -quanto meno per i suoi effetti a lunga scadenza-; ma anche per la sua stranezza. Infatti è assai strano che una feudataria, se pur ricca, ma sempre di periferia, per così dire, sia riuscita a trattare da pari a pari con un re del calibro di Ferdinando, astuto e calcolatore, costringendolo a giurare sui Vangeli quanto aveva accordato; a imporre condizioni inaccettabili in qualsiasi tribunale non solo della Sicilia, ma della intera Spagna, in violazione di norme antiche e delle stesso diritto di natura; a costringere una potente famiglia quale erano gli Enriquez a giurare ed accettare cose inaccettabili per chiunque avesse un minimo di rispetto delle leggi se non di dignità. Tutto ciò è veramente sorprendente e si può spiegare solo pensando che da un lato le due donne, ma in particolare la madre, dovessero avere un carattere di ferro; dall’altro che il patrimonio di Anna Cabrera, nonostante le alienazioni e i pignoramenti, era così appetibile che valeva anche le più grandi concessioni. D’altra parte, forse sia gli Enriquez che il re Ferdinando, dovettero pensare che non era detto che la contessa sopravvivesse alla figlia e al genero. In tal caso, quelle clausole assurde e illegittime, che infrangevano le leggi romane, normanne e aragonesi, e che erano stati costretti a giurare sui Santi Evangeli pur di raggiungere lo scopo, si sarebbero sciolte come neve al sole. In pratica forse fecero una grande scommessa sulla vita della altera contessa Giovanna Ximenes de Foix, di stirpe francese, figlia di Sancha Cabrera, figlia di Giovanni Bernardo Cabrera, figlio del grande Bernardo Cabrera, di reale discendenza aragonese…Gli Enriquez e l’astuto Ferdinando avrebbero potuto perdere quella scommessa. Invece la vinsero.
5.Il trasferimento in Spagna
Non sappiamo con esattezza quando i due coniugi si trasferirono in Spagna. Ma possiamo dire con certezza che tale passaggio avvenne tra la fine del 1485 e l’inizio del 1486. Due eventi ci permettono di datare il viaggio nell’arco di questo periodo. Nella primavera 1483, la contessa donna Giovanna, poco più che cinquantenne, cadde ammalata piuttosto gravemente, per cui maturò la decisione di fare testamento, dettando le sue ultime e definitive volontà. Riteniamo quindi che sia morta poco tempo dopo, lasciando liberi i coniugi di scegliere la loro residenza. Il testamento, pubblicato nel 1982 dal prof. Sipione, si preoccupa soprattutto di assicurare l’avvenire della figlia ultimogenita Elisabetta o Isabel, alla quale, oltre i ventimila fiorini lasciatile dal padre, legò i quarantamila di cui godeva lei stessa, dai quali ricavava almeno duemila fiorini l’anno di interessi.
Alla figlia Anna, lasciò a stento la legittima, quantificandola in una cappa d’argento, in due monili d’oro ed in mille salme di frumento: cose tutte che già erano state date al genero Enriquez. Sipione nota qui un moto di stizza della suocera verso il genero e un po’ di astio verso la figlia Anna, ritenendo lo studioso che già fossero andati via. Noi invece sappiamo che erano ancora in Sicilia, forse a Palermo o nei loro possedimenti della Sicilia occidentale. Forse, come nelle famiglie più umili, erano difficili i rapporti fra genero e suocera, che non doveva essere proprio una santa. Alla figlia minore Elisabetta, che attornia di persone fidate perché goda delle sue rendite e si possa sposare, lascia uttti i suoi beni e il castello di Modica, come garanzia del pagamento dei frutti. Sebbene la figlia avesse meno di dieci anni, la contessa dichiara di aver già emanato bandi di poterni poi contrarri matrimonio e demanda ai tutori la scelta dello sposo. Ma, saggiamente, fu previsto che nel caso in cui l’erede universale fosse morta in minore età, tutti i suoi beni avrebbero dovuto essere venduti e dal ricavato dovevano crearsi legati di maritaggio per orfane e poveri, oltre che destinarli in beneficenza. Niente cioè sarebbe dovuto andare alla figlia Anna e al suo marito castigliano…
Ma ancora una volta la sorte dispose diversamente. Avendo i due coniugi deciso di lasciare Modica per trasferirsi in Spagna, data la minore età di Elisabetta, che con sessantamila fiorini di rendita non poteva in ogni caso essere abbandonata ai tutori, la portarono con sé.
Se non ci fosse la sua statua di bronzo, opera egregia di Cristobal Andino, con la dedica fattale dal cognato, al lato sinistro dell’altare maggiore di San Francesco a Medina de Rioseco, non avremmo conosciuto la sua sorte. Sposata ad un fratello minore di Federico, di nome Francesco[21], morì a soli 19 anni nel 1493. Probabilmente i conti di Modica non decisero subito di trasferirsi in Spagna nell’anno 1484, ma nel 1485 si verificò il fatto che dovette deciderli immediatamente. Infatti ai primi di maggio di quell’anno a Valladolid morì l’Ammiraglio don Alfonso Enriquez, padre di don Fadrique che ricopriva anche la carica di viceré governatore dei territori castigliano-leonesi, essendo presidente del “Consiglio al di là dei monti”. Tale triste notizia fu portata a Isabella a Cordova, dova la regina la apprese il 27 maggio[22].
Se erano ancora in Sicilia la notizia dovette arrivare ai primi di agosto a Palermo e, considerate le vie di comunicazione dell’epoca, circa un mese dopo a Modica, ormai troppo tardi per mettersi in viaggio, essendo autunno avanzato. Pertanto è verosimile una partenza nella primavera dell’anno successivo 1486.
Testimone di tale viaggio è un personaggio che non gode di buona critica in Italia. Si tratta di Lucio Marineo Siculo, umanista originario di Vizzini, dove nacque intorno al 1460. Stroncati da Carmelo Trasselli[23], i suoi lavori forse meritano una qualche revisione critica, essendo peraltro le sue opere storiche fonti assai apprezzate dagli spagnoli.[24]
Durante il loro viaggio verso Palermo e la Spagna, i Conti, accompagnati da Isabel, si fermarono probabilmente ad Alcamo. A mio avviso ne è prova uno magnifico dipinto (anche se realizzato un ventennio dopo).
Solarino, parlando delle nozze di Anna e Federico Enriquez Cabrera, scrisse: «la chiesa dei francescani d’Alcamo fu fondata a 1505 da questi coniugi…i cui ritratti, ritenuti opera di Pietro Perugino, si conservano colà». Attirato dalla possibilità concreta di conoscere il volto di questi personaggi, è bastato fare una semplice visita ai gentili frati del convento e della chiesa di Santa Maria ad Alcamo per potere ammirare uno splendido dipinto che raffigura i conti di Modica ed avere notizie più precise. Mentre non si conosce l’anno della fondazione del convento, che in ogni caso è anteriore al 1484, notizie più precise si conoscono della chiesa.
«Essa -si legge negli atti- fu fatta ampliare e fu dedicata alla Vergine Madre nell’anno 1507 da don Federico Enriquez de Cabrera, almirante di Castiglia, conte di Modica e padrone di Alcamo e Caccamo, come è attestato da un’iscrizione risalente al 1762… posta al lato sinistro della porta d’ingresso…». La chiesa è ornata di lavori di scultura e di alcuni dipinti, tra cui uno «di gran pregio che ornava la cappella del conte di Modica», «una pregevolissima pittura eseguita su legno alta mt. 2,50 e larga mt. 1,63 che è attribuita all’insigne artista palermitano Pietro Ruzzolone[25]. In essa sono dipinti la Madonna della Grazia o, come comunemente viene chiamata, la Madonna Greca con in braccio il Bambino, ai lati S. Francesco d’Assisi e S. Benedetto e, ai piedi…il conte di Modica, la moglie e altri componenti la famiglia e alquanti nobili personaggi. Il padre Galeotti, che primo segnalò questa egregia opera d’arte nel 1836, quando essa venne restaurata dal pittore Luigi Pizzillo così la descrive:
“In un aureo trono con gradini di stupendo rilievo è assisa la Vergine…Ai lati del trono stanno in piedi da manca S. Benedetto e da dritta S. Francesco. Intorno ai gradini formano due ali, ginocchioni, da una parte quattro figure, due di frati e due di magnifici personaggi; e dall’altra cinque o sei femmine; sia le une che gli altri con le mani giunte davanti al petto, e miranti con devoti sguardi la Vergine e il Figliuolo. Il primo di quelli, già maturo di anni vuolsi il conte di Modica: ha fra le mani un berretto di color rosso…Dall’altra parte, la prima delle donne (la contessa Anna de Cabrera), giovane e bella, è in ricco abbigliamento a vari colori, ma vi predomina un serio verde; e vuole osservarsi la gran maestria con cui è dipinto un piccolo velo alle treccie con arte ravvolte e annodate…”».
Il quadro è davvero splendido e seppure di scorcio ci fa vedere le immagini dei due coniugi e probabilmente di Isabel Cabrera, sorella di Anna. Il dipinto di Santa Maria dovette essere commissionato subito dopo il 1507, ma le figure dei personaggi sono probabilmente idealizzati. Don Federico era infatti coetaneo della moglie (e «pequeñisimo de cuerpo»[26]), invece nel quadro è un signore apparentemente alto e ben messo di circa 40-50 anni, mentre la moglie è rappresentata nella sua giovinezza, apparendo di una trentina d’anni. Ma se davvero la giovane accanto ad Anna è la sorella Isabel, già morta da 14 anni nel 1507, le immagini li rappresenterebbero (sempre idealmente) nel momento in cui i tre erano insieme e ad Alcamo: e ciò poté accadere solo nel 1485-1486. I coniugi e la giovanissima Isabel, probabilmente nella primavera 1486, abbandonarono per sempre la Sicilia, lasciando la Contea in balia completa dei funzionari e involontariamente dando col tempo alle varie “Università” la possibilità e lo spazio per autogovernarsi. Il fortuito combinarsi di vari eventi, cristallizzatisi in un matrimonio, consentirono dunque a queste belle terre, feudo di gran calidad secondo Zurita, di cominciare il loro cammino verso la pacifica e volontaria autodistruzione del feudalesimo.
11.Gli ultimi anni di don Fadrique, fra politica e misticismo (1525-1538)
…
***
Dopo il 1525 non abbiamo, finora, più notizie dell’almirante di Castiglia nelle vesti di politico. Ma ne abbiamo, assai abbandonati, sull’uomo, sulla sua religiosità, sui suoi atti estremi, a compimento e conclusione di una lunga vita. Nel 1526 morì la moglie Anna Cabrera, all’età di circa settanta anni. Don Fadrique le rese omaggio facendone sistemare le spoglie insieme a quelle della sorella Isabel, nella chiesa di S. Francesco, erigendo loro un grandioso monumento funebre, completato nel 1532. Nel 1530 aveva ceduto la contea di Modica al nipote Luigi I e alla moglie Anna II. Ma cerchiamo di andare con ordine.
Spirito religioso come tanti altri in quei tempi di acceso dibattito e di grandi interrogativi sulla fede cristiana, alla luce degli interrogativi posti dalla riforma luterana che stava dilaniando la cristianità, don Fadrique fu autore di non solo di precetti politici al principe ma anche di un’Epistola morale (1524) in cui sferzò il malcostume del clero. Questo scritto (di cui Sciuti Russi riporta ampi brani), in una temperie religiosa che già vedeva nascere la sensibilità e i programmi di riscossa di Ignazio di Loyola, non sono privi di una venatura misticheggiante, e ci sembrano quasi provenire dal pulpito di una chiesa.
«Chi è che conosce Dio? –scrive -Chi lo serve? Chi conosce interamente le sue colpe? Chi si duole per le offese a Dio?… O principi della terra a che pensate? Come dimenticate i vostri sudditi? Come non costruite buoni costumi? Come vi meravigliate se Lutero e altri eretici si ribellano cercando di prevalere sulla Fede, ribellandosi, dal momento che se la trovaste viva vi servireste di essa? Oh quanta poca differenza c’è fra ciò che dice Lutero e quello che i cattivi cristiani fanno!».
Sanchez Albornoz definisce l’Almirante «uno spirito sempre insoddisfatto, contraddittorio e torturato», che però non si limitò a scrivere. Agì direttamante per riformare i costumi, impegnandosi in prima persona, come vedremo.
Edificò anche materialmente templi dove i suoi vassalli potessero mantenersi nella fede cristiana. Era caratteristica e in pratica dovere delle grandi famiglie patrocinare la costruzione di chiese e conventi e gli Enriquez non si erano sottratti a tale onere. Il santo cui dedicarono la loro attenzione fu l’uomo che aveva rinunciato alle sue ricchezze, San Francesco d’Assisi, forse individuato come modello insuperabile di una vita ed esempio da seguire. Già don Fadrique I, avo paterno, e la moglie, avevano accolto nelle loro terre i frati francescani creando nel 1429 il convento di Valdescopezo, tomba di numerosi Enriquez, fra cui, secondo gli annali del convento, Giovanni Alfonso Enriquez de Cabrera, figlio di Vittoria Colonna, fondatrice di Vittoria, e la moglie Luisa de Sandoval. Si trovano lì sepolti i primi Enriquez, fra cui Luigi I e presumibilmente la moglie Anna II, successori di Federico e Anna nel governo della contea, che nel 1563 ritennero opportuno, secondo il prof. Sipione, mandare il loro figlio ed erede a Modica, per procedere alla massiccia alienazione di terre di cui già abbiamo parlato.
Per sé e la moglie invece don Fadrique volle creare un nuovo tempio e una nuova sepoltura. Contemporaneamente all’inizio della costruzione di San Francesco, chiesa e convento, nel 1491 l’Almirante aveva abbellito il palazzo, che sorgeva proprio di fronte alla chiesa, ristrutturandolo profondamente secondo i nuovi canoni del nascente gusto rinascimentale, oltre a creare per la città di Medina de Rioseco, che allora aveva diecimila abitanti circa ed era sede di una famosa fiera, uno studio di grammatica. Don Fadrique aveva ricevuto le lettere apostoliche con l’autorizzazione alla fondazione il 12 agosto 1491 e subito con le stesse maestranze che lavoravano al palazzo ne aveva iniziato la costruzione. Ma preso da un vero e proprio entusiasmo religioso, aveva chiesto al pontefice anche l’autorizzazione a creare un convento femminile di Clarisse[27].
E’ interessante leggere la premessa, perché da essa si capisce meglio l’intenzione dei coniugi Enriquez Cabrera. Innocenzo VIII loda la «sincera devozione dell’amato figlio e nobiluomo Fadrique Enriquez de Cabrera…,che merita siano ascoltate le sue suppliche, specialmente quelle che mirano alla propagazione della fede, all’aumento del culto divino e alla salute delle anime. In verità è già molto tempo che tu ci hai mandato la tua supplica in cui si diceva anche che tu, Almirante di Castiglia, per la specialissima devozione che hai alla Immacolata Concezione della Vergine Maria e all’ordine di Santa Clara… avendo la volontà, con l’incomparabile desiderio di mutare le cose terrene in celestiali e ciò che è transitorio in eterno, di costruire ed edificare… a Medina de Rioseco un monastero del detto ordine… con chiesa, campanile, campo di ortaggi e altre officine necessarie, a costo dei beni che il Signore ti ha dato…ti concediamo licenza…».
Il monastero fu poi incrementato nel 1492 con i beni della comunità ebraica cacciata, che l’Almirante, divenutone proprietario, si affrettò a donare alla fondazione.
La moglie Anna, «al cui acceso amore per il secondo ordine serafico si deve la fondazione», nel suo testamento assegnò 300.000 maravedìs di rendita perpetua «per dote…del detto monastero».
I lavori per la costruzione della chiesa e del convento di S. Francesco, terminarono il 19 giugno 1520, quando il tempio fu benedetto. Appena in tempo, nell’incendio delle Comunidades, per ospitare, come abbiamo visto, le lunghe trattative tra il reggente don Fadrique, la moglie Anna e i capi dei Comuneros.
Abbiamo già detto del monumento sepolcrale che don Fadrique eresse per la moglie, la cognata e per sé stesso, e che recentemente è stato in parte, per quel che è rimasto, riportato alla luce.
Gli annali del convento riportano alcuni eventi:
«1493- Nel palazzo conclude il cammino della sua vita donna Isabel de Cabrera, contessa di Melgar, ed è seppellita provvisoriamente nella parte destinata alla cappella maggiore”.
1538- A 11 giorni dal mese di gennaio-, di fronte al notaio Villarroel, comparve Antonio de Beizama, cameriere dell’illustrissimo signor Almirante… e disse che don Fadrique Enriquez sua signoria, era venuto meno da questa presente vita il mercoledì nella notte appena trascorsa, come è notorio, nella sua casa e palazzo…Giorno di gran lutto in città. Le campane delle sue chiese e conventi suonavano gravi, solenni…Il tempio offre un aspetto grandioso; panni neri adornano i muri e una profusione di luci distribuite con singolare ordine riempie gli altari della cappella maggiore. Vicino alla grata di Andino il tumulo coperto con magnifico panno dove campeggiano bordate in oro le armi degli Enriquez».
L’Almirante aveva voluto una chiesa estremamente povera all’esterno ma ricchissima all’interno e aveva chiamato i migliori architetti di Valladolid e Salamanca per costruirla. Per abbellirla all’interno fece venire i migliori artisti del tempo, fra i quali spiccano gli scultori Juan de Juni, e Cristobal de Andino. Don Fadrique incaricò quest’ultimo di fare «delle tombe di diaspro di Huerta del Rey, ornate di bronzo e dorate con oro fuso», e su queste dovevano essere collocate le statue oranti dello stesso metallo, di donna Anna de Cabrera, contessa di Modica e donna Isabel de Cabrera, contessa di Melgar, realizzate sempre da Andino nel 1532. Sempre Andino costruì un’imponente grata di ferro e dorata [ancor oggi ammirabile nella chiesa di Santa Maria de Mediavilla a Medina], che doveva separare la cappella maggiore dove erano collocate le statue dal resto della chiesa. A separare anche il suo sepolcro, costruito rasoterra, a rendere bene il concetto «esse stanno dove meritano, ed io dove merito»…Accanto a questo umile sepolcro Vittoria Colonna fece poi porre le lapidi sepolcrali per il marito e per sé[28].
15.Il testamento di don Federico e gli alumbrados
Possediamo il testamento di don Fadrique, ma non quello di donna Anna. Che questo sia esistito, oltre che logico e necessario, è prova un documento dell’archivio conventuale di Santa Clara a Medina, in cui l’Almirante, per quanto gli «compete come erede ed esecutore testamentario e successore dei beni che acquisì e che furono di donna Anna de Cabrera mia moglie e signora che è morta in gloria», provvede ad assicurare, commutandone le basi finanziarie, i trecentomila maravedìs lasciati in perpetuo dalla moglie per «dote e fondazione del convento», e a coprire contemporaneamente i lasciti e le disposizioni «per certi monasteri e ospedali e case pie della contea di Modica che è nel regno di Sicilia, secondo quanto ella disse e dichiarò al suo confessore e ad altre persone religiose di grande fede, nella quale volontà perseverò fino al tempo della sua fine e morte».
A quanto pare per problemi economici, c’era il rischio che le disposizioni testamentarie della contessa di Modica cadessero nel nulla. Ma forte dell’autorizzazione che Ferdinando gli aveva dato nel 1511, don Fadrique provvide con rendite provenienti dal suo maggiorasco.
Ma leggiamo il suo testamento:
«Nella nobile città di Medina de Rioseco il 13 del mese di maggio dell’anno del nostro Salvatore Gesù Cristo millecinquecentotrentasette, davanti a me Francesco Nuñez notaio… l’illustre signore don Fadrique Enriquez Almirante di Castiglia e di Granada conte di Modica, infermo di corpo ma in tutto il suo giudizio e intendimento, diede e consegnò questa scrittura…».
Dopo le formule rituali, ecco la premessa:
«In nome del Signore Gesù Cristo. Amen. Poiché secondo la dottrina dell’apostolo nel giudizio finale tutti dovremo presentarci davanti al trono del Nostro Signore Gesù Cristo a dar conto di tutte le nostre opere e di esse sarà misura la nostra gloria o la nostra pena, e se la brevità della nostra vita e l’incertezza della morte consigliano al genere umano di ben vivere per ben morire, perché dall’una cosa deriva l’altra; se vivendo moriamo, poiché il passare dei giorni è diminuzione della nostra vita e in ogni momento e luogo ci aspetta la morte con una ingannevole speranza di lunga vita, legati come siamo a questa carne, vaso assai debole del tesoro della nostra anima; carne che ci fa dimenticare di ben operare e di pensare che dobbiamo morire e di fare ciò che conviene e provvedere per quel fine: quando arriviamo all’ultimo momento della nostra vita cessano e terminano i nostri meriti e il conto si fa del passato e la nostra paga è il lavoro della giornata e la notte della morte la contiene tutta e se riflettiamo attentamente, la nostra vita dura meno di un giorno. E sebbene la vecchiaia e le sue sofferenze gridino di svegliarsi all’anima addormentata nel sogno di questa vita con il suo errato pensiero, non ci si risveglia: e se qualche malattia viene per messaggera non è creduta fino all’ultimo, per cui se c’è la volontà vien meno la possibilità di ben disporre perché i dolori mortali della fine di questa vita opprimono le forze della ragione. Facile è infatti dimenticare il significato del passo evangelico delle vergini che con i lumi accesi vegliarono tutta la notte fino a quando venisse lo sposo; poiché non risveglia nemmeno la voce dei predicatori che chiamano senza posa riferendo altre innumerevoli ammonizioni delle Sacre Scritture e mettendo in guardia coloro che reggono i maggiori possedimenti, in quanto più grande è lo stato e il potere, più pesante è l’amministrazione e sono più grandi e più numerosi i lacci e gli impacci e i pericoli e così deve essere maggiore la cura, prevedendo e disponendo in tempo, con un approfondito esame di tutte le cose che riguardano l’anima con soddisfazione delle pendenze, dando a ciascuno il suo, secondo Dio e la coscienza, abbandonando l’amore dei beni transitori…per conseguire quelli eterni della beatitudine per la quale siamo stati creati.
Considerando tutto ciò io don Fadrique Enriquez de Cabrera Almirante di Castiglia conte di Modica avendo molti giorni pensato e riflettuto che cosa è giusto fare in tutto ciò che conviene al bene e alla salvezza della mia anima, essendo ammalato nel corpo della malattia che a Dio Nostro Signore è piaciuto di darmi, ma sano nel mio intendimento faccio e ordino il mio testamento e ultima volontà nella maniera seguente…».
Rispettando la tripartizione caratteristica dei testamenti del tempo, dopo la premessa nutrita di saggezza e di mistica, don Fadrique detta le disposizioni relative alle esequie, ai lasciti pii e ai legati; seguirà poi la nomina dell’erede.
«In primo luogo affido la mia anima a Nostro Signore Dio che la creò e la redense con il suo prezioso sangue e supplico all’eterna Maestà pietà per essa e che la riceva con grande misericordia. In secondo luogo affido il mio corpo alla terra di cui fu formato e dispongo che quando la volontà di Nostro Signore lo avrà separato dalla mia anima, sia sepolto nel monastero di San Francesco della città di Medina de Rioseco nella cappella maggiore… nello spazio che c’è tra l’entrata delle porte della grata della cappella e la base del sepolcro della contessa di Modica mia moglie che abbia santa gloria e che sopra la mia sepoltura si ponga una lastra di marmo, sollevata dal suolo cinque dita con lettere scolpite che dicano Ellas estan do mereçen y yo do meresco».
Seguono poi le disposizioni per le messe da dire in suffragio della sua anima e «il giorno del suo seppellimento si diano ai frati del monastero venti agnelli e trenta cantari di vino e dieci cargas [29]di frumento come offerta per un anno».
«Inoltre lascio all’ospedale del Santo Spirito della mia città di Medina de Rioseco che ora si chiama ospedale della Contessa e di Santa Anna centomila maravedìs in denaro perché con essi si compri la biancheria per i letti dei poveri che si curano in questo ospedale… perché la contessa mia moglie lo lasciò disposto». Seguono poi numerosi legati alle chiese di Medina e del circondario e si torna alla questione del lascito di trecentomila maravedìs fatto dalla moglie Anna al monastero di Santa Clara. Una vera e propria emorragia, che don Fadrique, per adempire alla disposizione della moglie subisce caricandone il peso sulle rendite in frumento della città di Ceynos (ottantasei carichi l’anno, equivalenti a circa 80 quintali) e su altre rendite in denaro. Viste queste ricorrenti affermazioni, dobbiamo pensare che il testamento di Anna Cabrera sia rimasto inadempiuto per mancanza di fondi, se solo poco prima di morire lo stesso almirante lo poté finanziare. Qualcosa per Modica:
«Lascio agli ospedali della mia città di Modica in Sicilia cinquanta onze della mia moneta di quel regno per provvedere ai letti…». Seguono altri legati alle varie chiese di Sicilia, che però il testo da me consultato non individua. Lascia poi un milione di maravedìs al convento di San Francesco per adempire a disposizioni sue e della moglie. Un altro milione lo lascia al monastero di Sant’Agostino della città di Mansilla e raccomanda ai suoi eredi e successori di conservare in buono stato il monastero di Valdescopezo, dove sono sepolti i suoi nonni paterni Fadrique e Teresa de Quiñones, dove ha disposto che sulla loro tomba «perpetuamente arda una candela di cera». E ciò deve continuare ad essere fatto. Dispone poi che per completare la costruzione del monastero di Santa Maria del Gesù nella città di Modica e per porre in esso «uno scudo con le armi della contessa di Modica mia moglie e un organo e un altare… si diano mille fiorini di moneta di Sicilia e si faccia una grata che costi trenta onze e in più siano assegnate quaranta onze per gli ornamenti».
«Altresì ordino si restituisca alla Cesarea Maestà dell’Imperatore e re nostro signore poiché a ciò sono obbligato e l’ho giurato, il Toson d’Oro…», che con tanto fasto aveva ricevuto a Barcellona nel marzo 1519. Esauriti i lasciti pii, passiamo ai doni alle persone. Al suo confessore lascia una cantina alla porta di Castro con tutte le botti grandi e piccole. A tutti suoi servitori cinquemila maravedìs ciascuno. Ad un cappellano ne lascia ventimila per aiutarlo a sposare sua nipote, mentre ad un suo servo negro dona diecimila maravedìs e raccomanda ai suoi eredi di dargli da mangiare finché sarà in vita e per questo lascia altri diecimila maravedis. Possiede persino uno schiavo, al quale lascia seimila maravedìs, «e sia libero dopo la mia morte». Solarino scrive che avrebbe lasciato quindicimila maravedìs per riscattare i suoi vassalli di Modica dalle mani dei pirati barbareschi, ma nella copia di cui ci siamo serviti non c’è traccia di questa disposizione. Infine:
«Altresì, adempiendo tutto ciò che è disposto e dichiarato in questo testamento… in tutti gli altri beni liberi e divisibili che saranno miei e mi apparterranno al momento della mia fine e morte, nomino e istituisco per mio erede universale don Luis Enriquez conte di Modica figlio di don Ferdinando Enriquez mio fratello al quale chiedo per pietà che poiché gli restano tante rendite e tanto grande patrimonio e beni voglia essere erede nei beni che mi appartennero dopo aver interamente adempiuto alle mie disposizioni testamentarie».
Marcel Bataillon[30], che ci aiuta ad intendere questo documento pervaso di grande misticismo e di profonda pietà religiosa. Anche nell’introduzione che ben può essere definita mistica del testamento, ci sembra di avvertire reminiscenze dei temi dei cosidetti alumbrados,[31] gli “illuminati”, vere e proprie élite riformatrici che sulla base della conoscenza di alcune opere di Erasmo da Rotterdam, negli anni 1525-1532 soprattutto cercarono di introdurre in Spagna una vera e propria riforma cattolica. Dapprima tollerati subirono poi una violenta repressione agli inizi del regno di Filippo II. L’Almirante di Castiglia e conte di Modica si dimostrò affascinato da questa dottrina. Bataillon così scrive:
«L’almirante di Castiglia, don Fadrique Enriquez, che occupa un posto tanto preminente nella società spagnola dell’epoca come un uomo di stato e protettore delle lettere… resta sedotto dalla pietà interiore degli “illuminati”. Nel 1525 chiama a Medina de Rioseco il sacerdote Juan Lopez de Celain ed elabora con lui un programma di evangelizzazione delle sue terre. Così infatti il sacerdote gli aveva scritto da Toledo il 30 luglio 1525, in un frammento di lettera a noi pervenuta:
“Per questo, se V.S. vorrà prendere la bandiera di Dio e sotto di essa camminare con la grazia e le forze che Dio stesso le darà, io sarò la tromba e il piffero, anche se per la mia malvagità sarò un troppo cattivo strumento; e così tutti i chiamati seguiranno la bandiera e in questo modo potrà V.S. essere capo della riforma della vera cristianità. E se nostro signore per la sua bontà volesse che V.S. impiegasse ciò che le resta della sua vita a questo scopo e a me volesse fare la grazia di chiamarmi per servirle anche da straccio, solo di V.S. sarebbe il merito…». Lopez de Celain reclutò alcuni predicatori, e don Fadrique li ospitò per qualche tempo in una sua casa di campagna che possedeva nei dintorni di Medina. Alla fine non se ne fece nulla, ma fu notorio a tutti che l’almirante aveva avuto con gli “illuminati” stretti rapporti. Inoltre anche il suo segretario, Ortiz, era uno di loro. Profondamente religioso, don Fadrique alla fine della sua vita trae ulteriori
motivi di riflessione da quella “devozione moderna”. Del resto un suo nipote, Alfonso Enriquez, figlio del fratello Ferdinando, scrisse una Difesa di Erasmo stampata a Napoli nel 1532, e lo poté fare con la copertura dell’Almirante stesso, con ciò -scrive Bataillon- contribuendo a mantenere nella Spagna di Carlo V un clima di relativa libertà religiosa, che sarà spazzato via da Filippo II e dalla Controriforma.
In ogni caso, l’anziano Almirante, pur frequentando mistici condannati dall’Inquisizione (la beata Isabel del la Cruz) e proteggendo il frate Francisco Ortiz (condannato dal Sant’Uffizio), non fu minimamente molestato.
13.Epilogo
Dunque, Federico Enriquez. Al termine di questo lungo cammino, siamo in grado di dare un ritratto forse non molto lontano dalla realtà di uno dei protagonisti della primi anni di governo dell’epoca di Carlo V.
Nato intorno al 1460, probabilmnete per un abile calcolo politico del cugino Ferdinando, sposò Anna Cabrera, erede di un grande feudo in Sicilia. Il matrimonio fu un grosso affare di stato e si risolse col trasferimento nel 1481 di Federico Enriquez a Modica. Rimase in Sicilia fino al 1486, quando a seguito della morte del padre don Alfonso, abbandonò Modica insieme alla moglie Anna ed alla cognata Isabel. Durante il viaggio, i tre visitarono Alcamo, dove furono ritratti in qualche modo da un pittore (lo stesso Pietro Ruzzolone?), cosa che poi servì nel 1507 per formare il soggetto del quadro cosiddetto della Madonna Greca di Pietro Ruzzolone, che ancor oggi adorna la chiesa francescana di Santa Maria ad Alcamo. Da quel matrimonio e dal fatto che i Conti si trasferirono in Spagna, per la Contea di Modica derivarono profonde conseguenze. Infatti da un lato i Conti dovettero garantire il governo del feudo, creando una forte struttura di gestione; dall’altro la loro lontananza a poco a poco (specie dopo il fallito tentativo di permuta con altri feudi in Spagna nel 1547-1549), li convinse a dare il via ad un massiccio processo di parcellizzazione della terra, grazie all’istituto dell’enfiteusi. Si creò così un consistente nucleo di piccola e media proprietà, che frantumò il grande feudo e produsse forti innovazioni nelle colture, che da granarie si specializzarono anche in vinicole (soprattuto con la nascita di Vittoria, ai primi del Seicento), oltre all’allevamento bovino.
Ma i Conti risultano avere anche un ruolo importante nell’introduzione dell’Umanesimo in Castiglia, perché con sé in Spagna portarono Lucio Marineo Siculo, che al di là dei giudizi sprezzanti di Carmelo Trasselli, con il suo insegnamento a Salamanca, aprì nuovi scenari nella cultura spagnola. Lo stesso Almirante fu definito «mecenate, studioso delle lingue classiche, dotato di grande curiosità intellettuale, amante della poesia ed egli stesso autore di versi…inediti» (Sciuti Russi). Succeduto al padre nell’Almirantato, al seguito dei Re Cattolici, visse le ultime fasi della Reconquista, partecipando alle battaglie per conquistare il regno di Granada, la cui capitolazione si ebbe nel gennaio 1492. Che la carica di Almirante non fosse puramente onorifica, è dimostrato anche dal fatto che Cristoforo Colombo (presente alla presa di Granada) chiese in cambio della consegna ai Re Cattolici delle nuove terre che avrebbe scoperto, il titolo di Ammiraglio del Mare Oceano con gli stessi contenuti economici e politici avuti dall’Almirante don Alfonso Enriquez, che era anche viceré-governatore di parte della Castiglia. Legittimista, seguì con apprensione lo scontro tra Ferdinando e il genero Filippo il Bello, dopo la morte di Isabella e si schierò con Giovanna, quando il marito voleva farla internare in un convento. Dopo il ritorno al potere di Ferdinando lo servì fedelmente, fino alla sua morte. Nel caos seguito alla scomparsa del vecchio re, in attesa della venuta in Spagna del nuovo givoane re Carlo, al cardinal Cisneros che gli aveva chiesto aiuto per domare la rivolta siciliana, suggerì prudenza, saggezza e perdono, con il blocco di ogni decisione che fomentasse il malcontento, dimostrando per la prima volta la sua concezione del rapporto tra Sovrano e sudditi. La sua visione dello Stato si esprimeva in una «concezione organistica della res publica, di derivazione medievale: il sovrano al vertice, e i suoi sudditi (guerrieri, sacerdoti, contadini) quali membra del corpo statale» (Sciuti Russi). Da ciò derivava la necessità di non spargere il sangue dei sudditi, perché lo Stato se ne sarebbe indebolito[32], con il continuo appello alla pacificazione, alla clemenza, alla comprensione dei motivi del malcontento. Lo stesso atteggiamento ebbe don Fadrique durante la rivolta dei Comuneros, quando negoziò fino all’estremo, tentado di convincere i rivoltosi a rientrare al servizio del re, promettendo una clemenza che invece Carlo V non si sognava di usare. Aiutato dalla moglie Anna, nel convento di San Francesco a Medina di Rioseco, riuscì a convincere uno dei capi della rivolta, don Pedro Girón, cognato del fratello Ferdinando a lasciare il campo dei Comuneros, riuscendoci. Ma ciò non esitnse la rivolta, anzi. L’Almirante fu a lungo assediato e pagò di persona con la distruzione di una sua città i suoi tentativi di mediazione. Dopo la sconfitta dei Comuneros a Villalar, Carlo V in pratica sconfessò la sua politica “morbida” e lo esautorò dal governo della Spagna. Pur ritenendo la cosa un oltraggio, don Fadrique continuò a servire il re in battaglia e lo seguì in Italia, dove fu ferito a Pavia da una fucilata. Ma ormai anziano, l’Almirante cercò di convincere Carlo V a introdurre modifiche radicali nell’organizzazione dello Stato, prendendo a modello la Francia, uno Stato compatto, mentre i domini spagnoli erano sparsi e divisi e ciascuno con leggi e usi propri e diversi, cosa che rendeva debole l’immensa macchina dello Stato, cui si erano aggiunti anche i nuovi possedimenti americani. Carlo V non lo ascoltò né poteva realizzare ciò che non riuscì a nessuno dei suoi successori. Cattolicissimo, con la moglie fondò nel 1491 la chiesa e il convento di San Francesco a Medina de Rioseco, ed ebbe particolare attezione alla costruzione e ristrutturazione di chiese, conventi ed ospedali esistenti nei suoi psosessi spagnoli e siciliani. Ma sentì anche l’esigenza di fare la sua parte per una profonda riforma della chiesa, abbracciando, forse dopo letture erasmiane, le idee degli alumbrados, gli “illuminati”, un movimento poi condannato dalla Chiesa come in parte eretico. Alla moglie Anna, morta nel 1526 ed alla cognata Isabel (morta a 19 anni nel 1493, moglie di suo fratello Francesco), dedicò un grandioso monumento funebre nell’altare maggiore della chiesa di San Francesco a Medina, con due statue oranti fuse in bronzo dorato, poste in alto rispetto alla sua tomba, posta in basso ai piedi dell’altare. Morì nel 1538, lasciando minuziose disposizione testamentarie. Privi di eredi, lui e la moglie Anna avevano deciso della loro successione, nominando eredi universali i nipoti Luigi ed Anna II.
Un grande
personaggio, Federico Enriquez Conte di Modica…
Appendice 2
I Capitoli nuziali di Anna Cabrera e Federico Enriquez
«In nome di Cristo sia noto a tutti che, poiché il nostro serenissimo ed eccellentissimo Principe e signore don Ferdinando re di Castiglia e Aragona ora felicemente regnante ebbe in animo e desiderò che si contraesse matrimonio tra l’egregio e magnifico don Federico Enriquez figlio dell’illustre don Alfonso Enriquez Grande Ammiraglio del Regno di Castiglia e dell’illustre donna Maria de Velasco sua moglie, e l’egregia donna Anna de Cabrera contessa di Modica e viscontessa di Bas e Cabrera figlia del fu egregio don Giovanni de Cabrera e dell’egregia donna Giovanna de Cabrera contessa e viscontessa della detta contea e viscontea:
per concordare detto matrimonio Sua Maestà mandò un proprio inviato nel Regno di Sicilia alle dette contesse con sue istruzioni ed una lettera credenziale scritta di propria mano, attraverso le quali le dette contesse, intesa la volontà del Re di fare questo matrimonio, comprendendo che questo fatto veniva a loro utilità e comodo, acconsentirono a quel contratto e mandarono al Re due loro inviati con le loro risposte e i capitoli contenenti in forma autenticata quelle osservazioni che sembrarono loro pertinenti a portare a compimento e alla consumazione del matrimonio, supplicandolo si degnasse prima di approvarli, giurarli e ratificarli, affinché dopo fossero firmati e giurati dai su nominati illustri signori Alfonso Enriquez e sua moglie e Federico Enriquez loro figlio, futuro marito dell’egregia donna Anna.
I capitoli furono quindi decretati dal Re e alla fine di ognuno di essi per la maggior parte furono apposte delle osservazioni secondo le sue intenzioni e sulla base di esse furono accettati e giurati tuttavia a certe condizioni e nel modo e nella forma di loro accettazione in essi contenuti, e la serie dei capitoli con le risposte apposte alla loro fine è la seguente.
“Noi don Ferdinando per grazia di Dio Re di Castiglia Aragona Leon Sicilia Toledo Valencia Galizia Maiorca Siviglia Sardegna Cordova Corsica Murcia Jaen Algarve, di Algeziras e di Gibilterra, Conte di Barcellona Signore di Biscaglia e di Molina, Duca di Atene e Neopatria Conte di Rossiglione e di Cerdagna Marchese di Oristano e Conte di Goziano.
Per mezzo dei nostri cari e fedeli sudditi, i signori Johan Molinez cappellano e Stefan del Corral segreto della terra di Caccamo, messaggeri inviatici da parte della egregia e amata nostra signora donna Johana de Cabrera contessa di Modica in suo nome e della egregia e amata nostra signora donna Anna sua figlia contessa di Modica e viscontessa di Bas e Cabrera, ci furono presentate le risposte date dalle dette contesse madre e figlia alle istruzioni e a tutte le altre cose che il nostro amato Andrea Badaluc da parte nostra e in virtù di una lettera credenziale scritta di nostra propria mano illustrò loro sopra il matrimonio che in grazia di Dio s’ha da fare tra l’egregio e amato cugino nostro don Fadrique Enriquez figlio primogenito ed erede dell’egregio e amato zio nostro don Alfonso Enriquez Grande Ammiraglio di Castiglia e la detta donna Anna contessa di Modica viscontessa di Bas e di Cabrera, risposte contenenti molti capitoli e richieste sulla contrattazione di detto matrimonio e che firmate di mano della detta contessa donna Giovanna e sigillate con il suo sigillo impresso in cera nera e stilate dal notaio Tommaso Baglieri segretario della detta contessa nel Castello di Modica il 5 del mese di febbraio dell’anno dell’Incarnazione del Nostro Signore Gesù Cristo Millequattrocentosettantanove abbiamo visto e riconosciuto e accettiamo le proposte delle dette contesse madre e figlia e inoltre la volontà e affezione che mostrano di volerci ubbidire servire e compiacere, tralasciati alcuni capitoli ai quali non è necessario replicare, ordiniamo di rispondere agli altri capitoli e richieste cominciando dal settimo così avendo rispetto alle dette contesse madre e figlia come a ciascuna di esse, e di continuare le risposte alla fine di ciascun capitolo successivo secondo il tenore che a loro è sembrato nella maniera seguente.
Resposti a li Instructioni et a tuctu quillu et quantu pir virtuti di una littera de cridenza scricta di manu propria di la magesta de lu Signuri Re di Castella nostru Signuri et pir virtuti di li diti instruccioni esplicau misser Andria Badaluch a nuj contissi et commissi a lu venerabili misseri Johan Molinez capellano dila contissa dompna Johanna et Astephanu di Coral secretu di la terra di Caccabu, chi hagiun di reritari (sic) et diri a la dita Majesta pir parti di li dicti Contissi et primo: Vui prenominati misser Johan Molinez Stiphanu di Coral dirriti ala dicta magestati che li ditti contissi matri et figla assai humilimenti et per infiniti volti si encomandan in gratia et merzedi sua magistati. Et pri parti di li dicti cuntissi baxariti li mani ad sua alteza.
Appressu pir molti volti refeririti
infiniti gracij a la dita magestati di tanta humanita e gracia et speciali
affectioni li quali sua Magesta dimostra circa lu beneficiu et riparu di li
dicti contissi e statu loru.
[1] Il testo è un ampliamento del breve saggio Anna Cabrera e Federico Enriquez Conti Modica, già on line. La foto di copertina ritrae la statua orante di donna Anna Cabrera, Contessa di Modica, al lato destro dell’altare maggiore della chiesa di San Francesco a Medina de Rioseco. La statua è opera dello scultore Cristobal de Andino e risale al 1532
[2] Sulla complessa vicenda vedi il mio Vittoria Colonna, fondatrice di Vittoria di Sicilia
[3] Alejandro Nanclarés, Informe arqueológico de la excavación realizada en la iglesia di san Francisco de Medina de Rioseco durante el año 1989
[4] Esteban Garcia Chico, Catalogo Monumental de Medina de Rioseco, Valladolid 1979.
[5] Raffaele Solarino, La Contea di Modica, Ragusa 1885-1905, rist. 1982
[6] Leonardo Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio 1989
[7] Filippo Garofalo, Discorsi sopra l’antica e moderna Ragusa, Paolino Editrice 1980
[8] Maurice Aymard, Il commercio dei grani nella Sicilia del 1500, A.S.S.O. 1976
[9] «L’enfiteusi è un contratto, in virtù del quale si concede un fondo coll’obbligo di migliorarlo, e di pagare in ogni anno una determinata prestazione che si dice canone, o in danaro o in derrate, in ricognizione del dominio del concedente» (art. 1678 del Codice per lo Regno delle Due Sicilie, 1840
[10] Enzo Sipione, Concessioni di terre ed enfiteusi nella Contea di Modica, A.S.S. serie IV vol. III; Conte ed Università a Modica nel secolo XVI, A.S.S.O. 1964-’65; Statuti e Capitoli della Contea di Modica, Società Siciliana per la Storia Patria, 1976
[11]Giuseppe Raniolo, Introduzione alle Consuetudini ed agli Istituti della Contea di Modica, 2 voll. Ragusa-Modica 1985-’87.
[12] Paolo Monello, Nascita di un popolo nuovo, Utopia Edizioni 1993
[13]Andrea Guarneri, I capitoli nuziali di Anna Cabrera, in A.S.S. 1885
[14]Queste e le altre traduzioni che si è reso necessario fare per una migliore comprensione dei testi sono state eseguite dal sottoscritto. Pertanto ne porto intera responsabilità per gli errori riscontrabili.
[15]Giovanni II, padre di Ferdinando il Cattolico, re d’Aragona dal 1458 al 1479.
[16]Giovanni II, allora duca di Penafiel, era stato viceré di Sicilia dal 1415 al 1416, con grande desiderio dei siciliani di averlo come re
[17]Isabel Cabrera era sorella di Giovanni I, padre di Anna
[18]Re di Castiglia dal 1474 è il figlio Ferdinando, sposato con Isabella di Castiglia.
[19] G. E. Di Blasi, Storia cronologica de’ Viceré…Edizioni della Regione Siciliana
[20] Fernando del Pulgar, Crónica de los Reyes Católicos, Madrid 1943, cap. CXXI
[21] conte di Melgar morto nel 1506
[22] Juan Manzano Manzano, Cristoforo Colombo. Sette anni decisivi della sua vita (1485-1492), I.st. Pol. Zecca dello Stato 1991
[23] Carmelo Trasselli, Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V, Rubbettino 1982
[24]Secondo Mongitore, Lucio Marineo iniziò a studiare nel suo paese natale, poi passò a Catania e a Palermo per studiare il latino con Giovanni Naso e il greco con Giacomo Mirabella. Trasferitosi a Roma ebbe come maestro Sulpizio da Veroli, della scuola di Pomponio Leto; tornò poi in Sicilia per insegnare a Palermo. Passato in Spagna, insegnò poetica ed eloquenza all’Università di Salamanca dal 1486 al 1498 e fu nominato regio storiografo da Ferdinando. Anche Carlo V lo utilizzò a suo piacimento per storie definite dal Trasselli «squallide agiografie». Eppure questo vizzinese, siciliano rinnegato, che disimpara persino il dialetto e nelle sue storie ignora la Sicilia, ha il non piccolo merito di aver introdotto, con pochi altri, l’Umanesimo in Spagna. E la cosa più strana è che può essere considerato un dono alla Spagna fatto dai Conti di Modica! Scrive infatti il Mongitore nella sua Bibliotheca Sicula che «essendo venuto in Sicilia il Grand’Ammiraglio di Castiglia Federico Enriquez per sposare Anna Cabrera contessa di Modica, dovendo ritornare in Spagna, portò con sé Marineo, nel quale suscitò la speranza di maggior fortuna, e con la promessa che lì avrebbe avuto onori maggiori che in Sicilia. Nicolao Antonio… dice che ciò è avvenuto nel 1484…Invece è avvenuto nel 1486, come si deduce chiaramente da Agostino Inveges».
Non sappiamo come i conti di Modica siano venuti in contatto con il Marineo. Probabilmente lo incontrarono o ne sentirono parlare bene a Palermo, dove evidentemente dovettero risiedere per qualche tempo, forse in attesa del viaggio di andata in Spagna. Comunque Federico si rivelerà persona assai colta e pertanto sensibile al fascino dell’Umanesimo che in Sicilia allora brillava di insigni latinisti e grecisti.
Dalle lettere che in seguito leggeremo, scritte da Marineo all’Almirante e viceversa, traspare un rapporto di amicizia, anche se interessata da parte di Marineo, non però una dipendenza da “cliente” a “patrono”.
Comunque per la sua attività, durata fino al 1533, appare assai acuto il giudizio di Mongitore, secondo il quale «recatosi a Salamanca e preso contatto con Antonio de Nebrija [o Lebrija, autore di una grammatica della lingua latina che ebbe 50 edizioni e della prima grammatica del castigliano], con lui si affaticò a ripulire gli spagnoli dalla barbarie, e a tentare di raffinare i loro ingegni, del resto acuti, con le discipline umanistiche».
[25]Il pittore Ruzzolone, autore di un grande dipinto conservato a Termini Imerese, lavorò a Palermo dal 1484 al 1526 e le sue opere sono influenzate da Piero della Francesca e da contatti con la Francia meridionale
su di lui vedi Pietro Maria Rocca in Archivio Storico Siciliano 1896
[26] Vittorio Sciuti Russi, Fadrique II Enriquez Cabrera e Carlo V, in La Contea di Modica (sec. XIV-XVII), Bonanno Editore 2009
[27] E. Garcia Chico, Catalogo Monumental de La Provincia di Valladolid. Medina de Rioseco, Valladolid 1979; dello stesso autore La orden franciscana en Medina de Rioseco (1936-1945)
[28]Al di sotto ne abbiamo rinvenuto i resti che in parte abbiamo portato a Vittoria.
[29]Il grano veniva misurato in cargas, composta ciascuna da due fanegas.Ogni fanega equivaleva a 44 kg.
[30] M. Bataillon, Erasmo y España, Fondo de cultura económica, México 1950
[31] Il movimento degli alumbrados si diffuse nei primi del Cinquecento. «Eredi di una tradizione volta ad esaltare l’interiorità e a contrapporla alle forme esteriori della devozione, gli Illuminati miravano a raggiungere l’unione con Dio nell’intimità della propria anima mediante il raccoglimento e la meditazione, alimentandosi con la lettura e con il commento delle Sacre Scritture. Nelle meditazione si doveva raggiungere il completo distacco dal mondano e, attraverso l’orazione mentale, far entrare Dio nell’anima e nei cuori. Accanto alla mistica e al raccoglimento, praticato nelle chiese ad occhi chiusi, un’altra corrente di misticismo illuminato predicava e praticava il completo abbandono dell’anima nell’amore di Dio, lo svuotamento di se stessi al fine del raggiungimento dell’unione divina. Quell’abbandono poteva esprimersi anche con pubblici rapimenti, visioni, estasi, manifestazioni pericolose di una spiritualità che apparve agli inquisitori compiaciuta e ambiziosa e dietro la quale poteva ben nascondersi il demonio, se non la simulazione o la commedia» (Sciuti Russi)
[32] Alcuni decenni dopo, con Filippo II, prevarrà la concezione dello Stato-macchina, un organismo che doveva funzionare in modo perfetto attraverso le sue leggi, il suo efficiente ordinamento amministrativo, i suoi ministri, giudici, ufficiali.
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