Concludo il richiamo di vecchi articoli scritti in varie occasioni. Si tratta di recensioni, di anniversari, di brevi saggi richiestimi.
Ecco l’indice:
1.Recensione al libro “Tra le vie della storia vittoriese (1935-1947)” di Paolo Medino, in La Provincia di Ragusa, 2005.
2.Testo dell’intervento fatto a Sala Mandarà il 21 aprile 2005 in occasione della presentazione dello stesso libro.
3.Recensione del libro “Le stragi dimenticate” di Gianfranco Ciriacono, in La Provincia di Ragusa, 2005.
4.Recensione al volume “I Malafrúsculi” di Salvatore Bucchieri, in La Provincia di Ragusa, 2005.
5.Voce “Vittoria Colonna (1558-1633)” in “Le Siciliane”, Romeo Editore 2005
6.Verso il Quarto Centenario, 2006.
7.Per il 40° dell’Emaia, 2006.
8.Dalla civiltà del vino alla serricoltura (brevi appunti per il corso di storia locale del 19 ottobre 2006).
9.Dal vigneto alla serricoltura. Omaggio alla storia e alle tradizioni di Vittoria.
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Ed ecco alcuni stralci:
3.Recensione del libro “Le stragi dimenticate” di Gianfranco Ciriacono, in La Provincia di Ragusa, 2005.
Il sessantesimo anniversario dello sbarco degli Anglo-Americani il 10 luglio 1943 sulle nostre coste, è stato ricordato con varie iniziative e celebrazioni, ma soprattutto con una pubblicazione che ha il pregio di trattare la vicenda bellica in controtendenza rispetto alla retorica dell’”epopea dei liberatori”, mettendo l’accento su alcuni fatti di brutale e ingiustificata crudeltà di soldati americani nei confronti di militari e civili nelle nostre zone nei giorni immediatamente successivi allo sbarco. Si tratta del saggio “Le stragi dimenticate. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella”, Ragusa 2003, una ricerca ben fatta del dr. Gianfranco Ciriacono. Un giovane acatese che ha unito al rigore scientifico la passione provenientegli dall’essere nipote di uno degli uccisi di Piano Stella.
Mi sono avvicinato alla lettura del testo con il bagaglio di notizie orali in mio possesso sui giorni dello sbarco. Soprattutto di cose sentite da mia madre e dai miei nonni, allora nella loro casa di campagna all’Anguilla, che la mattina del 10 luglio, dopo i bombardamenti della nottata, una volta alzatisi, videro il mare coperto da centinaia di mezzi da sbarco e da decine e decine di navi. Mio nonno materno (uno dei primi coltivatori di pomodoro a campo aperto di Vittoria sin dai primi del Novecento), che aveva fatto il militare nei Carabinieri, usava dire che gli Americani ci avevano presi “cco’ tascu”, per dire che la nostra difesa era stata inesistente. Ma in quei momenti drammatici, i miei si prodigarono per quanto poterono a vestire con abiti civili i soldati che fuggivano per non farsi catturare o uccidere. Dello sbarco degli Americani ho un documento ancor oggi presente a casa mia: una cassapanca, costruita con il legname delle casse dei viveri lanciati col paracadute prima dello sbarco. Il saggio si legge come un romanzo, ma le pagine grondano dolore, stupore e rabbia. Gianfranco Ciriacono lamenta il silenzio che per tanti anni ha circondato gli eccidi dei “liberatori”. In verità, se ignoravo le stragi dei militari italiani e tedeschi, l’uccisione dei Curciullo (nonno e zio del dr. Angelo Curciullo, già sindaco di Vittoria) e degli altri “o Cianu a Stidda” è stata sempre nota a Vittoria. Ma considerata come un fatto di guerra, una casualità disgraziata per quelle persone. Sulle uccisioni per mano americana a Piano Stella, prima di questa ricerca, conoscevo varie versioni. La prima (letta in uno dei tanti scritti di Leonardo Sciascia, se non ricordo male) riconduceva la fucilazione al fatto che gli uccisi sarebbero stati in lutto e quindi con indosso una camicia nera e per questo scambiati per fascisti e “giustiziati”. L’altra versione, raccolta a Vittoria nell’ambito della parentela degli uccisi, spiega la fucilazione con il fatto che le persone assegnatarie di terre della riforma agraria di Mussolini a Piano Stella sarebbero stati ritenuti dagli Americani sicuramente fascisti e per questo passati per le armi. Entrambe le versioni addebitano dunque la fucilazione all’essere “fascisti” delle vittime. Una “spiegazione” smentita dall’affermazione dell’autroe, che ha potuto verificare la non appartenenza al Pnf degli uccisi. Ignoro l’origine della notizia ripresa da Sciascia (forse nata per giustificare un’incomprensibile ferocia americana, in contraddizione con il ruolo di “liberatori” buoni e distributori di caramelle e cioccolatini…
Ma già da tempo esisteva la versione esatta dei fatti. Nel 1976, nel volume “La battaglia di Gela” (autore Nunzio Vicino, Tipografia La Moderna, Modica) comparve la testimonianza di tale Giuseppe Pedilarco, uno dei coloni, dal titolo “Piano Stella”, che fa precedere la strage dalla narrazione di un aspro combattimento tra soldati italiani e tedeschi da un lato e americani dall’altro tra le case del borgo Ventimiglia di Piano Stella e cita un certo ingegnere Fiore, chiamato “direttore tecnico”, forse una agronomo, certamente un fascista. Costui, dopo aver contribuito ad organizzare la resistenza dei militari italiani e casa per casa contro i paracadutisti americani lanciatisi sul bosco di Santo Pietro, riuscì a fuggire. Invece i civili intrappolati nella casa colonica n. 24 subirono le conseguenze della resistenza alla conquista dell’aeroporto di Biscari e dei combattimenti lì intorno, con la fucilazione immediata di tre persone che erano uscite dalla casa per avvertire che dentro c’erano solo civili. Caddero così Nicolò Marcinnò (che però fu curato dagli stessi americani e si salvò), il figlio Francesco e Filippo Noto, tutti di Caltagirone. Poi furono fatti uscire i rifugiati nella casa colonica n. 26 appartenente appunto ai Ciriacono. Padre e figlio entrambi di nome Giuseppe, Salvatore Sentina, Giuseppe Alba (tutti di Caltagirone) e i due vittoriesi Giovanni e Sebastiano Curciullo (un ragazzo di 16 anni), furono condotti poco lontani e fucilati a sangue freddo. Solo il ragazzo Ciriacono, di 12 anni, fu risparmiato. Questa è la versione di un testimone, già pubblicata nel 1976.
A queste notizie, che Gianfranco Ciriacono arricchisce con sedici testimonianze orali, raccolte tra i superstiti di quelle giornate (partendo naturalmente da quella del padre, e cioè il ragazzo di 12 anni risparmiato), sono state aggiunte le vere novità della ricerca: la scoperta cioè di altre due stragi sconosciute di due gruppi rispettivamente di 37 e 36 soldati italiani e tedeschi, catturati nei pressi dell’aeroporto chiamato di Biscari o di Santo Pietro.
Il primo a dare notizia di queste stragi ignorate fu lo storico Carlo d’Este nel suo saggio “1943. Lo sbarco in Sicilia”, Mondatori 1990. Ciriacono parte da lì per risalire alla ricca documentazione della Corte Marziale americana che processò già nell’agosto 1943 i responsabili dei due eccidi. Si trattava del sergente Horace T. West (che da solo a colpi di mitragliatrice trucidò 37 soldati catturati dopo la battaglia per la conquista dell’aeroporto di Biscari) e del capitano John Compton (che invece ordinò ai suoi soldati di fucilare 36 tra italiani e tedeschi che si erano arresi dopo una accanita resistenza). Entrambi si difesero ricorrendo alle norme dettate dal generale Patton (“gran generali, ma ‘na cosa fitusa”, così fa dire Camilleri ad un suo personaggio in un recente racconto), che aveva ordinato di uccidere i nemici che si fossero arresi dopo un’accanita resistenza che fosse costata morti e feriti ai soldati americani. In base a tale norma di comportamento, la Corte Marziale condannò all’ergastolo il sergente West, perché invece l’assassinio dei militari era avvenuto a parecchie ore di distanza dalla resa, con i prigionieri disarmati, spogliati e senza scarpe (quindi impossibilitati a fuggire o ad opporre la benché minima resistenza). Assolse il capitano Compton, che aveva eseguito quegli ordini di Patton, che prevedevano la fucilazione di nemici arresisi dopo un’accanita resistenza, anche se alcuni di essi in abiti civili. West scontò solo diciotto mesi e combatté di nuovo nel fronte italiano della Linea Gotica, dove l’autore si chiede amaramente se mise in opera di nuovo le sue capacità di assassino.
Un libro triste, sugli orrori della guerra, sulla follia umana che gode del sangue, sulle crudeltà di cui è costellata ogni guerra, anche quella fatta per liberare l’Italia e l’Europa dalla tirannide nazi-fascista. Ma anche un libro appassionato, di chi non sa spiegarsi il perché di tre stragi avvenute tutte nello stesso luogo. La verità sta forse nel fatto che nonostante ciò che si pensa, lo sbarco degli Alleati non fu una passeggiata e alcune compagnie, avendo trovato un’inaspettata e accanita resistenza di Italiani e Tedeschi, si scatenarono in veri e propri massacri. Questo fu il caso della conquista dell’aeroporto di Santo Pietro e del borgo Ventimiglia di Piano Stella.
Mentre però delle stragi di soldati italiani e tedeschi si conoscono i nomi dei colpevoli, di quella del borgo Ventimiglia nessun nome di colpevole, nessun processo, nessuna condanna o assoluzione. Niente. Questo è ciò che brucia di più. Solo il dolore delle famiglie, l’angoscia perenne dei superstiti. Nessuna motivazione militare, nessuna resistenza fatta, giustifica l’assassinio a freddo dei poveri assegnatari di un lotto di terra e di una casa colonica.
Quanto al perché del “silenzio” sulle tre stragi, questa è una domanda cui è facile rispondere. L’Italia rinata dalla guerra per decenni occultò persino gli armadi dove erano custoditi i documenti delle stragi nazi-fasciste, voltandone le ante verso il muro, in modo che nessuno potesse aprirli. Ciò accadde per non compromettere negli Anni Cinquanta i rapporti con la nuova Germania del cancelliere Adenauer. Se i Governi dell’epoca si comportarono così con la Germania, chi poteva pensare di indagare su stragi fatte dai liberatori americani negli anni della Guerra Fredda?
Ecco il perché del silenzio, a mio avviso. Un silenzio però ormai perennemente cancellato da questo libro appassionato, che contiene un’ampia documentazione ed è arricchito da bellissime foto in bianco e nero dello sbarco e dell’avanzata degli Alleati (magnifica quella sulla costa di Scoglitti vista dall’alto, oggi completamente stravolta).
Mi auguro che Ciriacono dedichi la stessa passione e rigore scientifico ad altre ricerche storiche, perché la stoffa dello storico vero quando c’è si vede.
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4.Recensione al volume “I Malafrúsculi” di Salvatore Bucchieri, in La Provincia di Ragusa, 2005.
“A certu, iddu è da cumacca…”: quante volte lo abbiamo sentito (o anche detto!), magari senza conoscerne il preciso significato, ma intuendo trattarsi di uno “raccomandato”. Oppure “ficinu i cosi a fratisca”. O anche: “Si fici a cruci cca manu manca”. “Ma cui, chidu? Ma vattinni, chidu è santu ca nun sura!” etc. etc. Quanti di questi modi di dire ancora oggi sono diffusi e conosciuti nel loro significato? Molto più di quanto si creda, ma sempre meno di un tempo. Ed ora, a rinfrescarci la memoria, ma soprattutto a chiarirci meglio significato e origini di tali frasi viene di nuovo “I Malafrusculi. Storia costumi e tradizioni nei modi di dire della Sicilia sud-orientale” (Caltanissetta 2005, Edizioni Lussografica), seconda edizione riveduta, opera del dr. Salvatore Bucchieri. Intellettuale vittoriese serio e preparato, per lunghi anni stimato direttore del 4° Circolo Didattico “Gianni Rodari”, l’autore arricchisce notevolmente il panorama della produzione saggistica vittoriese degli ultimi anni, con un prodotto di qualità.
Che affronta il tema difficile delle origini e del significato dei modi di dire della Sicilia sud orientale, partendo da quelli vittoriesi (perché i Vittoriesi sono il risultato del continuo stillicidio di arrivi, durato tre secoli, di genti provenienti in grandissima parte dall’area sud-orientale dell’Isola e anche da Malta). Ma lo fa non dal punto di vista linguistico (in parte trattato da Consolino 1988), bensì storico, cercando per ognuno di darne la probabile origine e fornendone il significato. E’ quindi un lavoro che partendo da un modo di dire specifico va a ritroso nel tempo, alla ricerca di usi e costumi ormai scomparsi, frutto a loro volta di ricchissime stratificazioni storiche. Un lavoro di attenta ricerca filologica, che ha avuto come premessa un accurato e scrupoloso spoglio dei testi dei maggiori studiosi di storia, folklore, linguistica, della Sicilia e non solo, come è possibile constatare dalla bibliografia, vasta ben 8 pagine. Il volume raccoglie modi di dire completamente sconosciuti ai giovani e giovanissimi e solo parzialmente noti e usati dai loro genitori. A parte la voce “malafrusculi” che dà il titolo all’opera, che denomina i diavoli che secondo un’antica credenza iblea spingevano alla lussuria e al peccato nelle calde ore pomeridiane (per questo si vietava ai bambini di uscire durante “u filuvespiri”, cioè tra l’una e le tre del pomeriggio), è possibile “gustare” altre numerosissime voci e saperne le origini e i significati.
Ma perché proprio i modi di dire? Perché a giudizio dell’autore, a differenza dei proverbi, ”che affrontano sempre temi universali con l’intento di formulare giudizi e fornire valutazioni sulle principali circostanze della vita”, i modi di dire “non esprimono sentenze perché non si pongono finalità morali o pedagogiche in senso stretto; hanno origine in eventi storici, non necessariamente con la S maiuscola, ed esprimono semplicemente dei traslati, delle metafore, o anche paragoni espliciti”. Mentre “il proverbio è il risultato di un processo di pensiero…dal particolare all’universale, in quanto elabora una proposizione generale ed astratta sull’esperienza di casi particolari”, il modo di dire “è invece frutto della creatività e del pensiero…che si concretizza in una metafora”.
Fatta questa precisa ed opportuna distinzione, l’autore ci fa intendere i motivi della sua preferenza per il tema scelto: “La metafora è congeniale ai poeti e agli scrittori, ma è congeniale al popolo per la sua semplicità strutturale e per la sua incisività espressiva. Le metafore popolari vengono elaborate spontaneamente sulla base di eventi, situazioni, comportamenti noti e condivisi. Esse sono correlate con la storia, le tradizioni, le credenze comuni e perciò diventano patrimonio di tutti”. Dunque storia del popolo siciliano, delle genti viventi nella parte sud-orientale dell’Isola ha voluto fare il dr. Bucchieri, donandoci un amorevole contributo alla cultura del popolo vittoriese, alla conoscenza e alla tutela delle sue “radici”. Cosa sarebbero oggi le nostre conoscenze del mondo contadino ibleo, senza le ricerche di Serafino Amabile Guastella, che in parte le trasmise a Giuseppe Pitré? Cosa sarebbe la nostra storia senza le ricerche sul dialetto vittoriese del prof. Giovanni Consolino?
Partendo dai modi di dire di Vittoria, l’opera abbraccia l’intera storia della Sicilia. Alcuni modi di dire sono esclusivi di Vittoria (ad es. “nn’avi tanta racina appisa!”, per dire di chi “ha già tante di quelle disgrazie!”, modo di dire chiaramente legato alla produzione vinicola; oppure, “cci finiu com’o palazzu ‘i Pinnitu”, edificio rimasto esemplarmente incompiuto, in via Roma; ma anche “e cchi parunu, i tri ra taledda!”, famoso dipinto del pittore vittoriese Giuseppe Mazzone sulla Passione); ma altri sono riferibili all’intera Sicilia (“privu ra vista i l’uocci”, giuramento di ordalia legato all’antichissimo mito pre-greco dei Palici di Mineo; o “cch’è latina sta maccia”, modo di dire anch’esso di origine sicula; “furriarisi lecca e la mecca”, cioè girare tutto il mondo, antichissimo “relitto” linguistico arabo; “cuntari i tri g-ghiorna o fistinu”, riferito al famoso festino di Santa Rosalia a Palermo, arrivato tra il Cinque e il Seicento ai massimi splendori etc. etc.). E tanti altri modi di dire che la curiosità dei lettori scoprirà, con un godimento intellettuale leggero e ricco di contenuti allo stesso tempo. Storia della Sicilia, dunque.
Ma un filone particolare, che si inserisce negli studi dialettali, con il risultato di avere il grande merito di salvare dal naufragio dell’oblio tante particolari espressioni dell’intelligenza del nostro popolo. Dando un esempio di studi valido anche per il futuro. Perché se ha ragione il dr. Bucchieri nell’affermare che i modi di dire sono un distillato della fantasia, della creatività e della saggezza di un popolo in una data epoca, ciò significa anche che ogni epoca produce i suoi “modi di dire”. E poiché è difficile che il dialetto sparisca, ci saranno sempre nuovi modi di dire, frutti dei tempi nuovi, espressi ancora in dialetto siciliano. La lingua infatti è in continua evoluzione e in Sicilia accanto all’”italiano regionale” si parlerà sempre una forma di dialetto siciliano più o meno infarcito di termini moderni, che pur escludendo dall’uso termini indicanti oggetti o situazioni ormai non più attuali, conserverà sempre l’antica struttura sintattica così come si è formata in epoca normanno-sveva. Per cui domani, persino gli sms, i “messaggini” via telefonino, tutto ciò che oggi ci appare “strano” o scorretto sintatticamente e che si materializza su Internet o in televisione, potrà produrre nuovi modi di dire, che mi auguro possano essere studiati anch’essi con gli stessi acume, amore e cultura usati dal nostro autore.
Il volume è arricchito da numerose foto d’epoca, che completano l’opera con un tocco di raffinatezza e, direi, di grande bellezza.
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6.Verso il Quarto Centenario, 2006.
Vittoria si appresta a celebrare il Quarto Centenario della sua fondazione, avvenuta nel triennio 1606-1608. L’A.C., consapevole della grande opportunità culturale offerta dall’occasione, ha voluto impostare un lavoro di lungo respiro e di largo coinvolgimento della cittadinanza, delle Università siciliane, del mondo della cultura e dell’associazionismo vittoriese. Se le celebrazioni del III Centenario valsero a fondare per alcuni decenni la coscienza storica dei Vittoriesi, con la creazione di alcuni “miti” storiografici, oggi, le nuove ricerche ci danno un quadro assai diverso rispetto a quello noto nel 1907. La storiografia recente infatti, arricchendo enormemente le conoscenze sui nostri quattro secoli di storia, ha sfatato alcuni di quei “miti”, a cominciare da quello della fondatrice (ricondotta al suo ruolo di signora feudale che raccolse un ottimo suggerimento da parte dei funzionari della Contea, ma che mai più si curò della nuova fondazione), al “mito della foresta” e a quello dei “banditi” che sarebbero stati tra i primi abitatori della città (con la nascita di gravi pregiudizi anti-Vittoriesi ancor oggi in parte esistenti). Nel Privilegio è infatti scritto con chiarezza che con la creazione della nuova città “si rende più sicura” l’intera zona (quindi il contrario di ciò che affermò nella sua storia del 1950 il comm. Giovanni Barone) mentre, per quanto riguarda la “foresta”, essa, alla luce della nuova documentazione si è trasformata in lande assai poco selvagge e invece in gran parte coltivate a vigneto da solerti Comisani già alla fine del Cinquecento, epoca alla quale risalgono inoltre alcune masserie nell’area dell’attuale Piazza Ricca (piano di San Giovanni), di cui si parla in un testamento del 1632. A sua volta la Valle è apparsa in tutto il suo rigoglio di agrumeti e coltivazioni di canapa (da cui “cannavate”) e altre fibre tessili, di vigneti e di seminati, ricca di mulini e “paratori” (per lavorare appunto le fibre tessili). La città nacque dunque in un territorio già notevolmente coltivato, ai margini però di una vasta area a boscaglia, chiamata “Giummarito”, che occupava il cuore del Boscopiano, area compresa tra la strada Comiso-Terranova, ancora oggi conosciuta come “strada dei Comisani” e le terre a ridosso della costa della Marina di Cammarana. Vittoria nacque per produrre vino, un destino già segnato nei patti tra Vittoria Colonna (cioè l’Amministrazione della Contea) e i coloni, definiti a Madrid il 1° settembre 1607 e nei mesi seguenti pubblicizzati a mezzo di banditori nelle piazze delle città e dei paesi della Contea di Modica e del Val di Noto. A seguito di tale “pubblicità”, dal 16 gennaio 1608 furono assegnate le terre libere lungo due direttrici fondamentali: la prima costituita dalla strada Comiso-Terranova; la seconda lungo la “strada delli giardinari” che dalla Valle saliva sul pianoro e che, dopo essersi diramata in varie trazzere, a Pozzo Bollente confluiva nella strada per Terranova (e che probabilmente è da identificare nel tracciato antico della trazzera di San Giuseppe lo Sperso).
Per ricordare dunque non solo le vicende della nascita ma anche il cammino percorso dalla nostra comunità nei suoi primi quattro secoli di vita, l’A.C. ha agito da un lato elaborando alcune proposte e dall’altro chiedendo la collaborazione delle scuole e del vastissimo tessuto sociale, culturale e del volontariato esistente in Città. A questa vasta platea, che entro il 31 ottobre ha fatto pervenire idee e suggerimenti preziosi, in grandissima parte accolti, l’A.C. ha affiancato un comitato scientifico formato da alcuni studiosi (vittoriesi e non) e da cinque docenti universitari delle tre sedi accademiche siciliane e dell’Università di Roma “La Sapienza”, nonché di valenti funzionari della Sovrintendenza ai Beni Culturali (tra i migliori conoscitori del territorio) e dell’Archivio di Stato di Ragusa. Compito del comitato scientifico è stato quello di elaborare il programma delle manifestazioni culturali e delle pubblicazioni.
A tale lavoro si aggiungono i progetti che le stesse scuole stanno elaborando, in ciò aiutate dal seminario tenuto in ottobre, cui hanno partecipato più di cento docenti. Il programma generale, comprensivo delle proposte del comitato scientifico e delle idee e suggerimenti già presentati dalle associazioni coinvolte, dopo il vaglio della Giunta Municipale (che rappresenta il comitato ristretto) sarà portato all’attenzione di una seconda assemblea delle associazioni, dopo quella del 5 ottobre, per essere vagliato ed approvato definitivamente. Una volta approvato il programma di massima, verranno richiesti i finanziamenti a Stato (il Ministero dei BB.CC. ha già in corso la pratica per la concessione del patrocinio), Regione, Provincia e a sponsor privati, mentre il Comune stesso provvederà a stanziare in bilancio parte delle somme necessarie. Le iniziative partiranno a fine gennaio 2007 e si concluderanno nell’aprile 2008. Numerosi saranno gli appuntamenti di massa, con il coinvolgimento della cittadinanza tutta, fatti di feste, concerti, rappresentazioni teatrali, spettacoli musicali e rassegne cinematografiche, con una sicura e buona crescita culturale della città. Un apposito sito internet, continuamente arricchito, seguirà tutte le manifestazioni e fornirà agli internauti anche saggi e documentazione varia sulla storia della città e del territorio. Un Comitato d’onore, formato dalle massime autorità politiche, civili e religiose della Città, della Provincia e della Regione, affiancherà l’A.C. nel corso della realizzazione delle iniziative. Sin dall’inizio ci siamo poste tre domande: “chi siamo?”, “da dove veniamo?”, “dove andiamo?”. Se, alla fine, avremo anche parzialmente risposto ad uno solo dei tre interrogativi, ne sarà valsa la pena e lasceremo un solido e buon ricordo ai futuri celebratori del Quinto Centenario…
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7.Per il 40° dell’Emaia, 2006.
Per una felice coincidenza, il 40° anniversario della Fiera Emaia cade nell’imminenza del Quarto centenario della fondazione della nostra Città. E poiché da sempre gli anniversari inducono a riflessioni e a trarre spunti per il futuro, non mi sottrarrò a questo esercizio, nell’abitudine inveterata di guardare al passato ma solo per capire meglio il presente e cercare di intravedere cosa ci riservi il futuro. E in verità, ripercorrere la storia degli ultimi quarant’anni di vita di Vittoria, definire cioè il nostro “come eravamo” dovrebbe servire a sapere dove andiamo. Proviamoci. Le prime macchine agricole esposte alla Villa Comunale nell’anno 1966 in occasione della I edizione erano l’emblema della trasformazione radicale avvenuta nelle nostre campagne, il segno di un progresso di cui la motorizzazione (non solo i trattori, ma anche le motociclette e le auto ormai avviate a diventare acquisto possibile per tutti) era solo un aspetto. Infatti le campagne dei primi anni Sessanta erano assai diverse da quelle uscite dalla guerra. Al vigneto sempre più in decadenza, dagli anni Trenta in poi si era affiancata la produzione dei primaticci a campo aperto (pomodori, fagiolini, piselli soprattutto). Il pomodoro era divenuto una delle novità dirompenti nel panorama economico della provincia. L’introduzione di nuove colture era stata reso possibile dalle profonde trasformazioni delle campagne a cominciare dalla fine del 1944, quando erano stati varati i decreti Gullo sulla nuova ripartizione dei prodotti tra concedenti e mezzadri e per l’assegnazione delle terre incolte e malcoltivate alle cooperative. In contrasto con la proposta delle sinistre per la riforma agraria, la Dc fece approvare nel 1948 dei provvedimenti a favore della piccola proprietà contadina, cosa che diede la possibilità a numerosi grandi proprietari di vendere e a numerosissimi braccianti e mezzadri di acquistare un fazzoletto di terra. Le grandi battaglie per l’imponibile di mano d’opera e gli obblighi di trasformazione fondiaria nati dalla riforma agraria del 1950 consentirono di estendere sempre più la coltivazione dei primaticci nella fascia costiera e imposero all’attenzione di decine di migliaia di braccianti la necessità di ottenere un nuovo tipo di contratto, quello della compartecipazione, che distribuiva la rendita fondiaria in quote maggiori verso i mezzadri-compartecipanti. Ma le gelate del 1956 avevano posto anche la necessità di proteggere dalle intemperie i primaticci. Da questa esigenza nacque l’idea di estendere a livello di massa, con una serra “povera (qualche palo coperto di teloni di plastica) il modello delle serre “ricche” di vetro e ferro che qualche grosso proprietario aveva già impiantato nel nostro territorio. La serricoltura di massa, nata nella primavera 1959, sostenuta da una proposta di legge presentata all’Ars dall’on. Rosario Jacono, cominciava i suoi primi passi, coprendo sempre più ampie superfici (quando però nacque l’Emaia già si era verificata una prima crisi di sovrapproduzione). Da allora, anno per anno, le edizioni dell’Emaia sono state la cartina al “tornasole” dello sviluppo economico, civile, culturale della Città. L’Emaia è stata -e continua ad essere- una bella vetrina, ma non solo. E’ anche momento di riflessione. Ciascun sindaco che ha occupato la carica può, come me, ricordare momenti lieti o tristi nella storia di questa Città, vissuti nella cornice dell’Emaia, dal 1982 trasferita in questa sede attuale. Dall’attacco della criminalità organizzata per tutti gli anni Ottanta, alle battaglie per la pace, per una sanatoria possibile, alle manifestazioni culturali, a quelle sportive, agli spettacoli: di tutto si è parlato all’Emaia. Una fiera che negli ultimi anni ha saputo cogliere momenti di nuove profonde trasformazioni nelle campagne. Uno mi sembra quello della crisi a volte drammatica della serricoltura. Il costo del lavoro sempre più pesante, l’assoluta non remuneratività dei prezzi spuntati nei mercati, la concorrenza leale e sleale e su tutto l’incombere della sfida del mercato unico del Mediterraneo dal 2010, la carenza delle infrastrutture (anche se ci sono importanti novità come l’aeroporto di Comiso, l’autoporto, il porto di Pozzallo): sono tutti fattori di crisi che attanagliano la vita di migliaia di produttori e a volte li fanno disperare del loro futuro.
L’alto costo della mano d’opera facilita l’ingresso di extracomunitari o di operai provenienti dall’est pagati a quindici-venti euro al giorno, con tutto ciò che sta provocando nei rapporti di lavoro e nella società e a volte con sfruttamento durissimo di esseri umani. Insomma, siamo nel pieno di un vortice di cambiamenti, in cui mi sembra di intravedere un’inversione di tendenza rispetto al passato. Se dal 1950 in poi si spezzettò la grande proprietà e si formò la piccola e pulviscolare proprietà contadina che tanto progresso ha portato a Vittoria, oggi la non remuneratività dei prezzi rischia di gettare sul lastrico migliaia di produttori, con un conseguente abbandono delle terre, una nuova probabile proletarizzazione dei produttori e l’accrescimento del numero delle grandi proprietà. In mezzo a questo fenomeno l’affermarsi di una nuova classe di imprenditori-mediatori del commercio, in parte produttori essi stessi, divenuta la nuova borghesia emergente. Insomma c’è aria di svolta, in questi anni e non sempre con aspetti positivi per la vita della stragrande maggioranza dei Vittoriesi. L’Emaia dal 2006 in poi sarà dunque chiamata a seguire queste trasformazioni. L’altro momento di svolta verificatosi nella nostra economia, anch’esso seguito negli ultimi anni dall’A.C. e dall’Emaia, è stato il ritorno alla grande del nostro vino, non solo del cerasuolo noto tradizionalmente, ma soprattutto del “nero d’avola” e ora del “frappato”. Un tempo noti solo per comporre il tessuto del cerasuolo, oggi vengono commercializzati separatamente e imbottigliati, con la creazione di una nicchia di gran gusto e di commercio di grande prospettiva. Merito di giovani imprenditori vinicoli degni della grande tradizione ottocentesca di Vittoria. E non solo ottocentesca. Nelle “Grazie e Franchigie” datate 1° settembre 1607 e fatte bandire dagli amministratori della Contea che suggerirono a Vittoria Colonna la fondazione di una nuova città nel feudo di Boscopiano, leggiamo: «Item, les concedo a todos los quisieren hacer viñas en las tierras vacuas y no enagenadas de Bosquellano, a cada uno que sea caveza de casa, una salma de tierra, con que sea obligado a pagar quatro tumulos de trigo en cada un año…». Cioè la possibilità di creare una vigna in ogni salma di terreno concessa al modico prezzo di 53 kg di frumento l’anno da versare come censo all’amministrazione comitale. Così nacque Vittoria, per produrre vino. E chissà che di nuovo il vino e una moderna e diversificata serricoltura non siano le due gambe su cui debba camminare la Vittoria del Duemila. Se infatti da solo il vigneto affondò nella crisi della fillossera, se la serricoltura si dibatte nella crisi attuale, riequilibrando le superfici coltivate a vigneto e a serre verso un tendenziale 50-50, forse potremmo riuscire ad inaugurare una nuova età di progresso per questa città. Un’utopia? Forse sì, ma senza utopie non ci sarebbe stata né la scoperta dell’America né lo sbarco sulla luna. Auguri, Emaia. Per i tuoi primi 40 anni.
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8.Dalla civiltà del vino alla serricoltura (brevi appunti per il corso di storia locale del 19 ottobre 2006)
1.La nascita del vigneto vittoriese.
«Item, les concedo a todos los quisieren hacer viñas en las tierras vacuas y no enagenadas de Bosquellano, a cada uno que sea caveza de casa, una salma de tierra, con que sea obligado a pagar quatro tumulos de trigo en cada un año al terrajero del Almirante en la dicha nueva Tierra, y quesiendo más de la dicha salma, haya de pagar ocho tumulos por salma de la tierra que fuere más…». Così leggiamo al punto 7 delle concessioni (chiamate tecnicamente “Grazie e franchigie”), che la contessa di Modica, donna Vittoria Colonna, fece scrivere e firmò a Madrid il 1° settembre 1607, dopo aver avuto la ratifica dell’autorizzazione a fondare la nuova Terra. La nobildonna infatti, sistemati i suoi affari di famiglia grazie ai fruttuosi rapporti intrattenuti con don Francisco Sandoval y Rojas, duca di Lerma, primo ministro dell’impero (e vero e proprio padrone della Spagna e delle sue colonie), aveva accolto di buon grado il suggerimento venutole dai funzionari della Contea di concedere in enfiteusi a coloni la parte rimasta libera (“non alienata”) del Boscopiano.
Dopo il fallito tentativo del 1549 di vendere la Contea a Carlo V, gli Enriquez Cabrera si erano visti nella necessità di concedere in enfiteusi grandi estensioni di terra. Secondo i calcoli del prof. Enzo Sipione, dal 1550 al 1564, ben 15.000 salme di terra (pari a circa 45.000 ettari), furono concesse a numerose persone (alcune ricche di grande liquidità) residenti a Modica, Scicli e Ragusa, ma lo “spezzettamento” aveva riguardato anche la valle del fiume di Cammarana (così infatti era chiamato allora il fiume oggi di nuovo conosciuto come Ippari, il cui nome classico ritornò in uso tra gli eruditi solo successivamente), la costa tra Randello e Zafaglione, e Bosco Rotondo, vicino Comiso.
Nei decenni seguenti, i conti Luigi II e Luigi III (rispettivamente suocero e marito di Vittoria Colonna) continuarono ad assegnare altre terre nella vallata, nella zona immediatamente dietro la linea costiera (dalla Salina a Burgaleci a Berdia) e soprattutto nelle contrade attraversate dalla strada che da Comiso si dirigeva ad Eraclea/Terranova (oggi Gela) e cioè Giummarito, Dragonara, Pozzo Bollente (altre vie attraversano la contrada Scalunazzo). Per cui, ai primi del Seicento, rimaneva parzialmente incolta una grande estensione di terra, denominata in generale appunto “giummarito” (da “giummara”, cioè la “palma nana”), nel cuore del feudo conosciuto come Boscopiano. Numerosi comisani coltivavano il fondovalle sotto “Grotte Alte” e nella zona dove oggi si apre la Piazza Vescovo Ricca sorgevano alcune masserie (come abbiamo appreso da un testamento del 1632, che fa riferimento appunto alla masseria di tale Vincenzo Monello, che sorgeva nella zona “ubi ad praesens constructa est Victoria”). Inoltre, nella zona del Canale (via Gaeta in fondo), a fine Cinquecento, il comisano Paolo Custureri possedeva un “ciaramiraro” (questo per ricordare come la leggenda della selva covo di fiere e popolata da banditi sia solo frutto di una cattiva tradizione, per fortuna smentita dai documenti). Convintasi della bontà dell’iniziativa, specie dopo la relazione sui luoghi fatta dal governatore Paolo La Restia (1604), la duchessa di Medina ordinò l’avvio della pratica. Il memoriale con la richiesta per la nuova fondazione fu inoltrato all’organismo competente, il Tribunale del Real Patrimonio, che lo approvò il 24 maggio. Così il 3 giugno 1606, il duca di Feria, vicerè di Sicilia, concesse a don Giovanni Alfonso Enriquez Cabrera e per lui alla madre e tutrice donna Vittoria Colonna la licenza di popolare un nuovo borgo, salva la ratifica reale, che fu concessa il 31 dicembre dello stesso anno. Il 4 marzo fu appaltata la costruzione del Castello, il 6 maggio quella della chiesa di San Giovanni e dei due mulini. Finalmente il 24 aprile il Privilegio, con la ratifica, fu registrato tra le leggi del Regno di Sicilia. Il 1° settembre successivo, Vittoria Colonna emanò le “Grazie e franchigie”, che nelle settimane seguenti furono divulgate a mezzo dei banditori nei paesi e nelle città del Val di Noto più vicine. Dopo l’assegnazione delle terre dal gennaio 1608, ecco che nei mesi seguenti arrivarono finalmente nella nuova Terra di Vittoria i primi abitatori (soprattutto da Comiso, Ragusa, Modica, Scicli, Vizzini e Chiaramonte).
Dunque a tutti coloro che vennero a popolare il nuovo borgo, l’Amministrazione comitale concesse una salma di terra, al modico terraggio (cioè costo della concessione) di quattro tumoli di frumento l’anno, pari a circa 53 kg (l’entità del terraggio risulta tra le più basse dell’epoca). Con questi patti semplici e convenienti, si mise in moto il meccanismo che ha condotto alla Vittoria di oggi. Furono 150 circa le città di nuova fondazione nate tra la metà del XVI secolo e il XVII: ma tra tutte Vittoria può essere considerata una delle meglio riuscite.
Nata dunque per produrre vino, già nel primo censimento, quello del 1616, è possibile constatare la diffusione del vigneto e il suo primo impianto nelle varie contrade attorno alla città. La vigne sono misurate a “migliaro”. Ogni migliaro corrisponde a mille vitigni piantati secondo il “sesto” di ml. 1,50 circa ed abbraccianti una superficie di terreno di un tumulo e un mondello, cioè mq. 2188 circa. Nel 1616 si contano 230 migliara di vigne (non distinte tra vigne e piante, per una superficie complessiva vitata pari a poco più di dieci salme -cioè poco più di 27 ettari-, su 134 concesse (pari al 7,46%). I filari venivano sistemati nell’antico sistema latino detto “a quincunce”, che aveva tale disegno:
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Nel 1623, data del secondo censimento, 938 migliara di viti coprono una superficie di circa 73 salme di terreno (ettari 203 circa), su un totale di 250 salme dichiarate (pari al 29,2%): in sette anni il vigneto aveva più che duplicato la sua estensione. Il balzo in avanti è notevole e testimonia come la viticoltura avesse trovato un luogo ideale per diffondersi, in prosecuzione, d’altra parte, delle colture in territorio di Comiso e di Chiaramonte. La diffusione del vigneto si accompagnò naturalmente all’apertura di nuove trazzere e alla costruzione di numerosi palmenti nelle 29 contrade censite del territorio (di cui 21 vignate). Cinque contrade raccolgono la metà di tutti i vigneti e sono la Dragonara (m.ra 110 e ½), Gelati (m.ra 112 e ½), Pozzo Bollente (m.ra 104), San Placido (m.ra 106) e Scalunazzo (m.ra 194). La Dragonara oggi è divisa in Rinelli, Fortura e Monte Calvo, mentre lo Scalonazzo comprendeva tutta la fascia di terreno da Mendolilli (oggi Fiera Emaia) a Fanello a Pozzo Bollente. La produttività media per tutto il Seicento fu di 4 barili (litri 320) di mosto a migliaio di viti, valutato al prezzo di tarì 8 a barile di litri 80 (per avere un termine di paragone, basti pensare che il salario giornaliero di un operaio andava da tarì 1.10 a 2 e che il costo di una gallina era di 2 tarì). Complessivamente i viticultori nel 1623 sono 196, ciascuno dei quali possiede una vigna in media pari a m.ra 5.
Il rivelo del 1638 censisce 49 contrade, di cui 22 vignate, con una superficie vitata di salme 158 circa (il doppio rispetto al 1623) con 2.021 migliara di viti. Una crescita esponenziale. Non abbiamo documenti sulla qualità dei vitigni, ma essendo l’agricoltura antica assai conservatrice, forse non sbagliamo se affermiamo che anche nella prima metà del Seicento i vitigni erano quelli che Domenico Sestini riscontrò intorno al 1770 e cioè: «…i Frappati, i Calabresi, i Grossi neri, li Cataratti, le Visazzare, e li Guarnacci, le quali sorte d’uve unite tutte insieme producono un’ottima qualità di vino rosso», appunto quello che oggi chiamiamo cerasuolo di Vittoria.
2.”I vini della Vittoria” nel Settecento.
Le gravi carestie degli anni Quaranta del Seicento ebbero profonde ripercussioni nella vita della cittadina, condizionando lo sviluppo del vigneto. Ma già nel 1682 le zone vitate risultano diffuse a macchia d’olio nel territorio, coinvolgendo altre contrade, fra cui Suvaro Torto, Capraro, Piano delli Guastelli e San Bartolomeo (dove oggi sorge il parco). Seppure lentamente, la città si riprese e riuscì a superare anche la gravissima mortalità del 1671-1675 (con in media 400 morti l’anno, su una popolazione di poco più di 3.000). Superò anche il gravissimo shock del terremoto del 1693, che distrusse più di 60 città del Val di Noto e provocò 60.000 morti, ma che fortunatamente risparmiò Vittoria, dove si contarono poche distruzioni e solo qualche decina di morti.
Pur incompleti, i dati del censimento del 1714, fatto sotto il nuovo sovrano Vittorio Amedeo di Savoia, indicano però un travolgente, nuovo sviluppo, che caratterizzerà tutto il Settecento. La popolazione di Vittoria passò dai 3950 abitanti del 1682 ai 5.500 del 1714.
Nei documenti Vittoria irrompe nel Settecento con le campagne rigogliose e ricche di frumento, orzo, olio e soprattutto vino. Complessivamente, nei due volumi da me esaminati (purtroppo appena un terzo del rivelo), sono registrate la bellezza di 6.381.517 viti in 47 contrade, alcune delle quali in verità appartenenti a Biscari, Comiso e Chiaramonte. Pur incompleti, i dati del 1714 sono impressionanti. Mentre per tutto il Seicento il vigneto circondava da tutti i lati la città, espandendosi a macchia di leopardo sia verso il mare che verso Biscari, ai primi del Settecento risultano vignate la zona costiera (prima vocata al frumento e all’orzo), ma soprattutto le contrade formalmente appartenenti a Chiaramonte sui due lati della strada che da Comiso porta a Caltagirone. Abbiamo così grandi vigneti ad Anguilla (482 m.ra), Scaletta (182 m.ra) e Valseca (m.ra 122 e ½). Ma ancor più grandi sono quelli di Bonincontro (322 m.ra), Boscopiano (199 m.ra), Capraro (190 m.ra), Forcone-Salmé (m.ra 684), Forcunello (m.ra 152), Fossa del Lupo (397 m.ra), Carcetti o Rinazzi di strata (744 m.ra), Montecalvo-Capraro-Reina (175 m.ra), Corte-S. Placido-Fanello (m.ra 118), Oliveri (m.ra 479), Pettineo (331 m.ra), Pozzo Bollente (316 m.ra), Salamato (373 m.ra), San Bartolomeo (m.ra 90), Santa Teresa (224 m.ra), Bastonaca (m.ra 46). Come si vede, tutte le terre verso Pedalino, ancor oggi cuore del vigneto vittoriese. Ciò avvenne dal 1682 in poi, grazie ad una nuova massiccia censuazione delle terre ad opera dei proprietari. Dai dati emerge anche un forte commercio con l’isola di Malta, attestata dalla presenza di numerose barche maltesi, trapanesi e marsalesi a Scoglitti (il cui scaro risulta già usato sin dagli anni Trenta del Seicento).
La proprietà delle terre è concentrata nelle mani di alcuni ricchi borghesi vittoriesi e comisani, di alcuni nobili (specie di Chiaramonte e Modica) e di istituzioni religiose di Vittoria, Chiaramonte, Ragusa e Modica, che ricevono censi sulle partite di terre concesse in enfiteusi.
Il vigneto vittoriese nel 1714 copre circa 1200 salme di terra circa, cioè circa 3.350 ettari. Tra le qualità di vini conservati in botti, risultano diffusi la “guarnaccia”, il moscatello e la malvasia, oltre, naturalmente al “vino nero”.
La fama vinicola di Vittoria è già piena agli inizi del Settecento, quando l’abate Vito Amico compone il suo Lexicon Topographicum, in cui può scrivere che il territorio di Vittoria «ferace in frumento e irriguo, è anche piantato estesamente a vigne, talchè somministra in abbondanza squisitissimi vini, non solo alle vicine terre, ma anche all’isola di Malta ed oltremare». Il vertiginoso sviluppo del vigneto continua per tutto il Settecento: i dati relativi al censimento del 1748 sono almeno il doppio di quelli del 1714. I vini di Vittoria attirano nella seconda metà del Settecento l’attenzione di due grandi studiosi, che visitarono le nostre campagne e descrissero la tradizione della nostra vendemmia e il modo di coltivare la vite da parte dei Vittoriesi.
Pur pubblicata nel 1812, la memoria sui vini di Vittoria scritta dal fiorentino Domenico Sestini (1750-1832), risale al 1776.
Il testo, scritto per l’Accademia fiorentina dei Georgofili, descrive accuratamente le modalità d’impianto e la cura del vigneto vittoriese nella seconda metà del Settecento, modalità che, in considerazione del fatto che poco o nulla doveva essere stato innovato rispetto al passato, penso possano essere riferite anche al Seicento. Messo in evidenza che il “vino nero” (in realtà rosso) di Vittoria viene esportato dal caricatore di Scoglitti, l’autore elenca le contrade che si distinguono per la produzione e la qualità del vino, fra cui indica S. Teresa, Pettineo, Fossa di Lupo, Spitalotto, Capraro, Montecalvo, tutte contrade assegnate a Vittoria dopo la lunga lite territoriale con Chiaramonte durante ben 80 anni e conclusasi nel 1764 con una transazione (allora fu inventato il motto “riaedificetur Camerina”, in quanto i Vittoriesi, per vincere la lite, puntarono a dimostrare che il Boscopiano equivaleva all’antica foresta di Camarina e poiché Vittoria sarebbe stata la “rifondazione” di Camarina, ne era la legittima proprietaria). L’autore passa poi a parlare del modo di impiantare i vitigni in uso fra i viticoltori vittoriesi, dalla preparazione del terreno con la “sistiatura”, all’impianto vero e proprio a “filagni”. Descritte le modalità di coltivazione, Sestini elenca le uve delle quali si servivano i viticoltori vittoriesi per formare una vigna: «sono i Frappati, i Calabresi, i Grossi neri, li Cataratti, le Visazzare, e li Guarnacci, le quali sorte d’uve unite tutte insieme producono un’ottima qualità di vino rosso». La vendemmia cominciava il 15 del mese di settembre e si faceva raccogliendo l’uva a mezzo di numerosi operai, che la portavano al palmento, rovesciando il contenuto delle ceste (corbelle) in una delle due aie laterali (“aria” o “pista”), dove subito veniva pestata con i piedi da appositi operai (“pisatura”). Il mosto quindi percolava nel primo fosso (ce n’erano cinque a palmento), dove veniva anche gettata la vinaccia, chiamata “pasta”. L’indomani si riempiva un secondo fosso (o il terzo, a seconda della consistenza delle vigne) e il terzo giorno il terzo (o il quarto). A mezzogiorno del terzo giorno comunque veniva sfossata la vinaccia del primo fosso, riversandola nell’area maggiore (che stava tra le due piste), coprendo la “pasta” di grosse tavole, sulle quali si calava una pesantissima “cianca” (un grosso tronco d’albero tagliato a forcella, che si appoggiata per mezzo di una grossa vite ad una pesantissima pietra, generalmente di forma troncoconica). La vite veniva girata da due o quattro uomini, per abbassare o sollevare la cianca, fino ad asciugare completamente le vinacce. Dalla “pasta” tenuta infossata 48 ore si producevano “vini nerissimi”. Per produrre invece “vini neri” (cioè rossi), la vinaccia doveva essere sfossata dopo 36 ore, cioè alla mezzanotte del secondo giorno. Per i vini “chiaretti”, dopo 24 ore. Per produrre vini bianchi, la pasta invece non veniva infossata, ma veniva immessa direttamente nella pista maggiore e asciugata a mezzo della cianca, mettendo poi il mosto nelle botti. Questa qualità veniva chiamata “vino crudo”. La maggior parte dei vini vittoriesi erano quelli nerissimi, prodotti con 48 ore di stasi nei fossi. Tale modo di fare il vino si mantenne fino a qualche decennio fa. Rispetto al prezzo di 8 tarì a barile nel 1623, Sestini parla di tarì 14 o 15 nel 1776. Prezzi cioè appena triplicati in 150 anni!
3.Dalla visita di Paolo Balsamo alla crisi della fillossera (1808-1885).
Lo sviluppo ininterrotto del vigneto per tutto il Settecento accompagnò la crescita della città di Vittoria, con l’introduzione della distillazione delle vinacce alla Scaletta, dove i Ricca, la maggiore famiglia della città, possedevano un “lambico”. A fine Settecento si registrò anche la prima grave distruzione di vigneti. Il cosiddetto “morbo nero” apparve nelle vigne della contrada Dirillo. Il pavimento dell’altare maggiore della basilica di San Giovanni Battista fu rifatto ex voto dai proprietari di quelle contrade nel 1801, dopo che l’intervento del Santo aveva, secondo loro, fatto cessare la grave infezione. «Morbo deperditis Odorilli/ vinetis gratia ex voto integre restitutis 1798-1801», si legge ancor oggi. E a rendere plastica l’idea della salvezza, l’intarsio di marmo raffigura due grossi cesti d’uva, il primo con i grappoli inariditi, il secondo li reca invece rigogliosi; al di sopra l’aquila a simboleggiare la Città. Se la memoria sui vini vittoriesi di Sestini rimase sepolta negli archivi dei Georgofili fino a qualche anno fa, il “Giornale del Viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica dall’Abate Paolo Balsamo”, svoltosi nel maggio-giugno 1808, fu pubblicato già nel 1809. Professore all’Università di Palermo, nel 1792, su incarico del viceré Caramanico, visitò le province dell’Isola, scrivendo poi un’apposita relazione sulla situazione dell’agricoltura in Sicilia e proponendo le sue idee per modernizzarla. Dall’esperienza inglese (che aveva studiato di presenza) aveva maturato l’idea che occorreva puntare sulle grandi proprietà piuttosto che sulle piccole, purché esse fossero libere dai vincoli feudali. Ma a Vittoria ebbe invece la prova che era la piccola proprietà libera a produrre meglio e ad apportare ricchezza. La sua esaltazione dell’agricoltura vittoriese lo porta ad additarla come esempio da seguire. «Il suolo, ed il clima è quivi adattissimo alla vigna; e questa con lodevole avvedimento non è composta quasi di altre viti, che di grossonero, di calabrese, ed incomparabilmente più di frappato, la quale produce un’uva con acini neri, tondeggianti, difficili a sgrappolarsi, serrati, e di sapore aspretto. Un migliajo di vigna rapporta colà ordinariamente quattro barili di vino». Si tratta della stessa produttività del 1623, mentre il prezzo era però salito da 15 tarì a due onze, cioè si era quadruplicato. Erano infatti gli anni della presenza inglese in Sicilia, che apportò ricchezza all’Isola fino a quando ci fu e crisi gravissima quando gli Inglesi lasciarono l’Isola nel 1815. Fu allora che il barone Francesco Contarella aprì una linea commerciale diretta tra Scoglitti e Genova, saltando l’intermediazione di Messina. Da allora il nostro vino si chiamò “Scoglitti”.
La prima metà dell’Ottocento vittoriese è caratterizzata da una stasi del vigneto e da gravi difficoltà nelle campagne. La repressione dopo la rivoluzione del 1820 e il fiscalismo borbonico ridussero la Sicilia ad una colonia. Ma fu proprio la legge doganale che vietava alla Sicilia di industrializzarsi (a favore delle manifatture napoletane) a creare la fortuna di Vittoria e delle altre zone a colture specializzate. Infatti era permesso esportare i prodotti delle colture pregiate quali olio e soprattutto vino verso Napoli. Tale legge, dal 1850 in poi portò ad un’immensa estensione del vigneto, che nel 1885 arrivò ad occupare due terzi del territorio di Vittoria (12.000 ettari su 18.000), apportando progresso e ricchezza. La città si ingrandì e si abbellì (ne fu diretta conseguenza il PRG del sindaco Rosario Cancellieri, del 1881), le campagne furono innervate da una fitta rete di strade, nacque la necessità di costruire alcune distillerie (fra cui quella dei Florio a Giardinazzo) e un porto degno di tale nome a Scoglitti, una linea ferrata che collegasse Vittoria a Siracusa e a Licata.
Furono anni di “boom” economico e demografico che vide Vittoria accrescere la sua popolazione da 18.000 a 32.000 abitanti, con buone amministrazioni comunali, fra cui splende ancor oggi per fama quella di Rosario Cancellieri (1879-1882). Un’epoca e un’intera classe sociale che può bene esser simbolizzata dal teatro comunale, costruito dalla “borghesia vinaiola”, secondo la felice espressione del prof. Luigi Frasca, fatta di medi proprietari e di grossi commercianti, che tenevano importanti contatti con i Florio. Un mondo di cui però con rara lucidità Salvatore Contarella mise in luce sin dal 1875 le gravi difficoltà nella commercializzazione del prodotto. Poi il crollo improvviso, crudele, causato dalla fillossera e dalle guerre commerciali con la Francia dal 1886 in poi. Vittoria sprofondò nella miseria e i suoi coltivatori sperimentarono sulla loro pelle quanto fosse stato errato puntare tutto sulla monocoltura del vigneto. Il vigneto fu in seguito pazientemente reimpiantato con più robusti vitigni americani, ma per assorbire l’eventuale sovrapproduzione e tenere alti i prezzi furono create nuove distillerie, soprattutto nei pressi della stazione ferroviaria (ancor oggi resistono le ciminiere della distilleria del Consorzio Agrario, inaugurata il 24 aprile 1907, in occasione del III Centenario della fondazione, e quella della distilleria Mazza, lungo la via Generale Cascino; scomparse invece le distillerie Meli, Sannino, Grasso, Scifo; in completa rovina quella Ingham-Withaker ex Florio in contrada Giardinazzo). Accanto al vigneto però furono impiantate altre coltivazioni. Sin dai primi del Novecento furono introdotti gli agrumi (prima limitati alla sola Valle dell’Ippari) e nelle terre dell’Anguilla (presso le case Denaro), in via sperimentale, prese il via la coltivazione del pomodoro a campo aperto, poi sviluppatasi sempre più dagli anni Trenta in poi. Le drammatiche vicende dei primi decenni del secolo (le feroci lotte politiche fra rizziani e socialisti, la prima guerra mondiale, l’avvento del Fascismo), non interruppero la lenta modernizzazione del vigneto e ancora una volta dalle campagne affluirono in città le risorse che dal 1910 in poi ne fecero una una città del Liberty. Entrato in crisi alla fine degli anni Quaranta, il vigneto sembrava definitivamente messo di lato dall’avvento della serricoltura (una vera e propria rivoluzione economica e sociale che ha trasformato le campagne di mezza provincia). E invece, a poco a poco, negli ultimi anni, grazie ad alcuni capaci imprenditori, è risorto a nuova vita: il frappato, il nero d’avola, un tempo noti solo come componenti del cerasuolo sono oggi tra i vini più richiesti dal mercato e stanno dando alla nostra città una nuova grande chance.
A conclusione di questo excursus, nel momento in cui ci accingiamo a celebrare i primi 400 anni di vita della nostra Città, possiamo ben dire che essa per 300 anni è stata la città del vino e che ha vissuto in una vera e propria “civiltà del vino”, che ha coinvolto tutta intera la vita della nostra comunità. Le forme del lavoro (operai, innestatori, vendemmiatori, bordonari, “pisatura”, carrettieri, i mastri carradori per i caratteristici carretti), i rapporti di classe e le figure sociali (i padroni, i mezzadri, i mediatori, i commercianti), le forme dell’abitare (i caratteristici “bagli” con i palmenti in campagna; le case con le carretterie in città), le vie di penetrazione nel territorio (le trazzere, fitte e lunghe), le infrastrutture (le distillerie, che con le loro ciminiere hanno gareggiato con i campanili; ma anche le strade, la ferrovia, il porto di Scoglitti): tutto è stato generato dal vigneto. Ma anche i tempi di vita dell’uomo si sono scanditi secondo i bisogni della vite, dalla “sistiatura” alla “virigna”. Profondi influssi hanno subito la lingua, con le numerose voci nel dialetto per indicare tutte le operazioni colturali e gli attrezzi, i proverbi e i modi di dire (alcuni squisitamente vittoriesi, come ad es. “nn’avi tanta rracina appisa!) e la gastronomia, con i dolci a base di mosto (mostata, mostaccioli, “cuddireddi” etc. etc.). Un mondo completo, appunto una vera e propria “civiltà”…
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