Obbligato dalla quarantena impostaci per salvarci dal coronavirus, ho passato gran parte del tempo libero a scrivere e quindi pubblicare on line nella mia bacheca su fb alcuni articoli di storia del territorio della città di Vittoria ed altro, utilizzando le enormi fonti documentarie dei riveli in mio possesso. Dopo il buon riscontro su fb, ho pensato di tornare a pubblicare su amazon (dove è riversata tutta la mia “produzione”), oltre che sul mio blog.
Ecco l’indice degli articoli pubblicati dal 18 marzo al 13 aprile:
1.La
proprietà della terra nell’Università di Vittoria nel 1748
2.La proprietà della terra nel 1714. L’assalto all’Eldorado vittoriese
3.La valle del fiume di Cammarana tra il 1714 ed il 1748. Proprietari e
coltivazioni
4.La conquista dei suoli edificabili e l’emergere delle nuove famiglie
5.Breve ragguaglio sui possessi della famiglia Ricca a metà del Settecento
6.Cenni riepilogativi sul vigneto vittoriese a metà del Settecento e su 12 magazzini a Scoglitti…
7.Sulle terre più “vinifere” di Vittoria a metà Settecento: tutte in mano a non Vittoriesi…
8.Osservazioni sulla leggenda del bastone d’oro di San Giovanni (da Federico La China, Giovanni Barone e Serafino Amabile Guastella)
9.Ancora sul bastone d’oro di San Giovanni
10.Baroni catanesi e “borgesi” vittoriesi a Bonincontro.
11.Don Gioacchino Paternò Castello e la “guerra” per Bonincontro
12.L’assegnazione di Bonincontro a Vittoria e le vicende familiari di don Gioacchino Paternò Castello
13.La tenuta di Bonincontro tra il 1769 ed il 1820. Ascesa della famiglia Scrofani/1
14.Ascesa della famiglia Scrofani/2
15.Scritture della Settimana Santa/1.
16.Scritture della Settimana Santa/2
17.Scritture della Settimana Santa/3 «lu iuovi fu trarutu cristu santu…».
18.Scritture della Settimana Santa/4 «lu vennir’ è ddi lignu la campana».
19.Storie della Settimana Santa/5. «…lu sabbitu maria sparmau lu mantu…». Il marchese Alfonso Ricca: chi era costui?
20.Storie della Settimana Santa/6. «…la duminica ggesu ‘n ciel’ acciana» (da Giovanni Consolino, Poesia popolare raccolta a Vittoria)
21.Brevi cenni sull’enfiteusi a Vittoria
22.La ricerca storica su Vittoria. Questioni di metodo
(Come di consueto, pubblico qui alcune stralci del testo, che può essere reperito completo su kindle store di amazon.it
1.La proprietà
della terra nell’Università di Vittoria nel 1748.
Contributo alla ricostruzione della classe dirigente
Avendo in corso la correzione del testo sulla storia
del vigneto vittoriese, mi si è reso necessario integrarlo con alcune notizie
sulla consistenza della vitivinicoltura nel 1748. Ed ogni volta che metto mano
al rivelo di quell’anno, non posso fare a meno di stupirmi di cosa fosse già a
metà del Settecento la nostra città. Non solo un mare di vigne, ma campagne
ricche di case, mandre, palmenti, terre coltivate anche a frumento, orzo,
scebba (soda, per la produzione del vetro), canapa e lino (nella valle del
fiume di Cammarana), ortaggi (a Fanello) e che esportava grandi quantità di
vino nero da taglio a Malta e Livorno. Nelle vigne e nelle terre aperte e chiuse
carrubi, olivi, fichi, peri, albicocchi. Una città che in poco più di 30 anni
aveva raddoppiato la popolazione, passando dai 5669 abitanti del 1714 ai 10.000
circa del 1748 (nonostante la gravissima epidemia della fine degli anni ’30,
forse dovuta al vaiolo, con migliaia e migliaia di morti), con nuovi quartieri
come quelli di San Domenico/San Giuseppe, San Paolo/Sant’Isidoro, San Francesco
di Paola, dei Cappuccini, che si erano uniti ai vecchi quartieri: San Giovanni
(ormai diviso in due: il vecchio e il nuovo), la Piazza/Ospedale (con numerose
botteghe), San Vito, San Biagio, Sant’Antonio, con due collegi femminili (il
collegio di Maria a San Biagio e quello della Sacra Famiglia a San Giuseppe,
dove si prevedeva anche il lavoro femminile), oltre al convento degli
Osservanti alla Grazia, dei Cappuccini ed al monastero di Santa Teresa.Inoltre
Scoglitti, con lo scaro, la torre e la chiesetta di San Francesco, mentre sul
promontorio di Cammarana la chiesetta della Madonna era oggetto di grande culto
popolare. Né mancavano gli allevamenti di bestiame: pecore, capre, ma anche
maiali ed un gran numero di bovini.Nelle botteghe inoltre non mancavano
formaggi, tonnina salata, mercerie varie, oltre naturalmente al vino. Insomma,
la città di cui l’abate Amico scriverà nel suo Dizionario del 1757.
Ma la cosa che più colpisce è che a metà del Settecento si è già completato il
processo di costruzione di una nuova classe dirigente cittadina, con grossi
proprietari terrieri, medici, notai, aromatari (speziali o farmacisti), mercanti
ed artigiani (tutti definiti “mastri”), che ricoprono le cariche di sindaco e
giurato e siedono nel Consiglio Civico e partecipano alle decisioni
amministrative, per quanto loro consentito dalle leggi del Regno e dai
particolari istituti della Contea. E di questa crescita della classe dirigente
vorrei dare alcuni “assaggi” accennando all’evoluzione del quadro della
proprietà terriera a Vittoria tra Sei e Settecento, quando poi emersero come
protagonisti i componenti di famiglie che poi governarono la città per tutto
l’Ottocento e fino alla prima metà del Novecento.
Per ricostruire la storia del vigneto vittoriese che -ripeto- non nasce
nell’Ottocento, ma che già a metà del Settecento era esteso per oltre 3000
ettari, ho dovuto riprendere in mano la fonte principale: appunto l’immenso
rivelo (cioè le dichiarazioni dei redditi) di Vittoria del 1748, composto da 15
volumi (mi ci vollero otto anni per trascriverlo!). Nel rivelo sono denunciate
2131 partite di vigne, per poco più di un migliaio di proprietari, partite
delle quali sto ricalcolando il numero in base all’estensione dei vigneti da 1
a 5 migliara, da 5 a 10, da 10 a 30 ed oltre, per individuare con precisione i
maggiori proprietari dei vigneti. Ma la cosa interessante che vorrei qui
richiamare (ne ho parlato altrove) è l’analisi della struttura della proprietà
della terra. Dal 1608 in poi, da quando cioè il Tribunale del Patrimonio della
Contea aveva cominciato ad assegnare in enfiteusi le terre nel cuore di
Boscopiano, le cose erano cambiate profondamente.
Tra il 1623 ed il 1714, le terre risultano in mano -oltre che alla Contea- a
numerosi proprietari ”esteri” , in verità essi stessi primi concessionari del
Conte, che a loro volta avevano sub-concesso queste terre ai coloni: pertanto
nel territorio della nuova fondazione gli abitatori/enfiteuti pagavano i censi
o direttamente al Conte o ad altri, a loro volta concessionari del Conte. Al
Conte si pagava un canone in natura o terraggio (pari a 4 tumoli di frumento
-circa 55 kg- a salma di terra in concessione, pari a mq. 27.900); ai numerosi
altri concessionari o aventi diritto (che si comportavano come proprietari a
tutti gli effetti), si versavano canoni in natura o in denaro, il cui importo
veniva considerato un interesse del 5%: in sostanza la terra era un capitale
che fruttava il 5% (il canone) ed il valore della terra o del capitale stesso
percepito in denaro si calcolava moltiplicando per 20 il valore del canone.
Per circa un secolo (almeno dal 1623 fino al 1713) la situazione della
proprietà nel territorio di Vittoria mutò solo di poco, senza che gli abitatori
di Vittoria ne fossero protagonisti.
Per una comprensione più facile della situazione, ho diviso il territorio in
parti:
1)le terre del pianoro;
2)le terre irrigue della valle del fiume di Cammarana;
3)le terre verso il mare
4)l’area dove sorse Vittoria.
5)le terre degli istituti religiosi.
Per quanto riguarda le terre del pianoro questa la situazione della proprietà:
1a).Boscopiano
I coloni enfiteuti di terre censite nel feudo di Boscopiano pagavano il censo
ai Gurreri o Gurrieri di Ragusa, baroni di Boscopiano (Gaspano nel 1623 ed il
figlio Andrea nel 1638); in seguito il feudo passò agli Interlandi di
Caltagirone (don Geronimo nel 1714 ed il figlio Giuseppe, investito del titolo
il 29 febbraio 1716, secondo Villabianca ). Ma a poco a poco su vaste porzioni
di Boscopiano, con le contrade Forcone, Salmé, Fossa di Lupo misero mano gli
eredi di don Carlo Leni , che risultano anche proprietari della Martorina o
della Salina;
1b).Dragonara/Fortura, Saccone
Don Giuseppe Grimaldi risulta concessionario della Dragonara (grosso modo le
contrade oggi comprese tra lo stradale di Acate e quello per Gela) sin da prima
del 1608, e nelle terre limitrofe chiamate Cozzo o Fossa di li petri nel 1623,
Fortuna e Saccone (poi Surdi). Nello stesso 1623, su parte della Dragonara -a
causa di un matrimonio- il censo su queste terre veniva pagato in parte anche
ai Settimo (marchesi di Giarratana dal 1595), cioè nel 1638 a don Giovanni
Settimo e nel 1651 al figlio don Pietro Settimo (dal 1630 barone di Cammaratini
).
I Grimaldi dal 1674 risultano anche possessori del feudo di Randello o San
Giovanni (Villabianca, pag. 338).
1c)il barone di San Filippo delle Colonne don Bernardo Arezzo e Valseca nel
1638 a Gelati;
1d)il governatore don Francisco Echelbez, a Gelati nel 1638;
1e)don Claudio Arezzi barone di San Biagio, per terre a Gelati-Cappellares (nel
1651).
2)le terre irrigue della valle del fiume di Cammarana
Le terre della valle, in gran parte erano proprietà di Comisani, ma nel futuro
territorio di Vittoria troviamo:
2a)il barone di San Filippo delle Colonne don Bernardo Arezzo e Valseca nel
1623 insediato nella Cava Cammarana (proprio sotto il Castello)
2b)don Carlo Tomasi e Caro, barone di Montechiaro (nel 1638) poi duca di Palma
(1651);
2c)don Antonino Giunta, barone di San Silvestro o Torrevecchia dal 1650;
2d)don Giuseppe Arezzo, che acquistò Castelluzzo nel 1672, divenendone barone.
2e)dr. Matteo Elia di Chiaramonte, gabelloto dal 1612 di Scaletta, Alcerito, Albanello,
Suvaro Torto (309 salme), cui in parte nel 1649 subentrò Filippo di Marco.
2f)i Brancato di Comiso, che “possedevano” Resiné (insieme con la Corte) e
parte di Burgaleci
2g)Filippo di Marco, gabelloto nel 1649 delle terre prima concesse a d’Elia (214
salme) e dal 1651 di terre del barone di Cammaratini;
2h)don Paolo Cappellares, chiaramontano, concessionario nel 1651 di vaste
estensioni di terre a Giummarito, che poi prese il nome di Cappellares;
3)le terre verso la costa
Nelle terre costiere risultano presenti:
3a)Nicolò Vassallo, genovese, gabelloto di Ancilla con salina di Cammarana e
Berdia (nel 1596, ma i suoi discendenti ebbero poi terre a Burgaleci e a San
Bartolomeo, di cui ebbero il titolo di barone);
3b)Paolo La Restia (1548-1631), barone di Bocampello e Piombo, Niscescia,
Berdia Anguilla (dalla fine del Cinquecento) poi marchese di Canicarao dal
1627.
4)l’area dove sorse Vittoria
4a)i fratelli Filippo e Paolo Custureri risultano in zona sin dal 1588.
Vittoria fu costruita su gran parte delle terre di Paolo Custureri già date in
concessione (Critazzi, Pozzo di Scorcio, Giummarito) a fine Cinquecento e i
suoi discendenti furono tra le persone più facoltose di Vittoria: le loro terre
si estendevano da Grutti Auti al pianoro del Giummarito (attuale centro e sulle
coste dal Passo del Pero e contrada Bianca, a Colledoro-Maritaggi, a San
Placido, al Bosco detto di Custureri, nella parte opposta, oggi la parte
meridionale dell’abitato). Suo figlio Antonino fondò una vera e propria
dinastia, con il nipote Antonino II che ebbe poi il titolo di barone del Bosco;
4b)Vincenzo Monello (zona dell’attuale Sala Mazzone e dintorni)
4c) Antonuzo Garofalo, concessionario dell’area dove oggi sorge la chiesa di
San Giovanni e piazza Ricca ed altre terre;
Ma oltre che a nobili e grossi borgesi, i Vittoriesi pagavano censi anche a
parecchi istituti religiosi fra i quali:
5a)il Venerabile Convento di San Francesco di Assisi di Comiso, per terre dette
Conca o Mandra della Lenza, che dal fondovalle salivano fino al pianoro oggi
detto Mendolilli (prima del 1608): in pratica la zona della fiera Emaia;
5b)il Venerabile Convento di San Francesco d’Assisi di Chiaramonte possedeva
Capraro, Montecalvo e Reina (poi detto appunto Fundo delli Monaci) sin dal
1651;
5c)la Venerabile Collegiata della SS.ma Annunciata del Comiso, possedeva terre
a Burgaleci (concesse prima del 1608).
5d)la Commenda di Malta per vigne a Scalunazzo (oggi area periferica urbana
verso Fanello, Surdi e Pozzo Bollente) nel 1638.
A tutti questi soggetti e istituti religiosi, pagavano il censo centinaia di
piccoli coltivatori vittoriesi: ma a poco a poco le cose cambieranno
(1-continua).
8.Osservazioni sulla leggenda del bastone d’oro di San
Giovanni (da Federico La China, Giovanni Barone e Serafino Amabile Guastella).
Tralasciando
per uno o due giorni le vicende delle campagne vittoriesi a metà Settecento,
vorrei oggi divagare un po’, parlando dell’origine della leggenda del bastone
d’oro di San Giovanni (che magari chissà, di questi tempi, potrebbe
aiutarci…).
E parlando di faccende ecclesiastiche a Vittoria, non si può non partire da
monsignor Federico La China.
«186. Pan. — Ritornando alla statua del Patrono, vidi che tenea in mano un
bastone d’argento, e mi dicea il P. Pisana, che la S. V. ne tiene in casa un
altro d’oro, il quale serve unicamente per le due processioni del Venerato
simulacro del Battista, cioè in Gennaro ed in Giugno. Avrà la S. V. la
degnazicne di farmelo osservare?
Parr. — Piacere!
Pan. — Ah, veramente è un elegantissimo lavoro! Quanto costò, se è lecito?
Parr. — L’ ignoro, perché venne donato al Patrono dall’estinto Sig. D. Giovanni
Ciani, Barone di Salina e Cinta, il quale morì nel 1777; quindi il bastone
rimonta ad un’ epoca anteriore alla morte del Ciani. Egli però avea il piacere
di tenerlo in casa, e darlo soltanto alla Chiesa, in occasione delle due
processioni testé nominate, e così praticarono il di lui figlio Barone D.
Salvatore, e la figlia di costui Baronessa Donna Marianna La China, nata Ciani.
Questa Signora, allo avvicinarsi dell’ora estrema, volle dettare il suo
testamento pubblico al Notar Ferdinando De Pasquale, sotto il dì 25 Marzo 1857,
e fra le altre cose disponea:
“Il Sacro bastone d’oro del Glorioso Precursor di Cristo, che da me si conserva
in deposito, dovrà custodirsi pure in deposito dalle moniali della Sacra
Famiglia, sotto titolo di S. Giuseppe, da uscirsi in ogni festività, in cui il
Santo sarà processionato per le strade della Comune, ed in ogni qual volta fa
di bisogno. Dopo il bisogno su detto, sarà riverentemente il bastone ricondotto
nel Collegio sudetto, per conservarsi come si è da me e dai miei praticato”.
Intanto verificatasi con la legge del 7 Luglio 1866 la soppressione delle
Corporazioni religiose, venne depositato presso la buon’anima dello zio Parroco
Scrofani, e dal 1880 sin’oggi è stato conservato presso di me».
A questo proposito, Giovanni Barone a pag. 196 della sua “Storia di Vittoria”,
parlando della statua, scrive:
«Il bastone che tiene in mano, di circa m. 1,50 di lunghezza, è completamente
d’oro, donato dal Sac. D. Giovanni Ciani, barone di Salina e Cinta, prima della
sua morte (avvenuta nel 1777), però viene usato soltanto nelle due processioni
del Battista dell’11 gennaio (in ricordo del terremoto del 1693) e della prima
domenica di luglio (dopo la ricorrenza del 24 giugno), mentre normalmente è
usato uno d’argento».
Dopo aver fatto diventare “sacerdote” don Giovanni Ciani, il comm. Barone in
nota aggiunge una storiella:
«Si dice che egli in occasione di una grave malattia abbia promesso al
Precursore la donazione di un bastone d’oro massiccio, per la grazia della
guarigione, poi, invece, a guarigione avvenuta, ne donò uno di argento
indorato. Una mattina però fu trovato pesto e boccheggiante e il popolo pensò
che su di lui si era abbattuta la vendetta di S. Giovanni Battista. Poco dopo
infatti il Ciani fece fare un altro bastone d’oro massiccio donandolo
solennemente al Precursore».
Conoscevo da Barone questa storiella, ma è stato con grande meraviglia che l’ho
ritrovata riportata nella introduzione ai “Canti popolari della Contea di
Modica” di Serafino Amabile Guastella (Modica, Tipografia Achille Secagno
1877). A proposito di santi e di devozione popolare, scrive Guastella:
«Nei primi anni del nostro secolo il Barone Ciani in Vittoria avea promesso a
San Giovanbattista un bastone a lamina d’oro, purché per altro lo sanasse da
non so qual morbo. Il Barone guarì, ma rivangando sulla promessa stimò che pel
Santo sarebbe stato indifferentissimo un bastone a
lamina d’oro, o un altro a lamina d’ argento dorato; e si attenne a questo
partito. I devoti ne fecero un indiavolato scalpore, ma il Barone avea il
cotone agli orecchi. Ed ecco che San Giovanni, vestito nella foggia come si
suole ordinariamente dipingere, gli comparisce a mezzanotte nella stanza da
letto, e gli fiacca 1’ossa col bastone regalatogli, e indi per maggiore spregio
glielo depone sul letto. Grandissimo fu il rumore che se ne fece, e grassissime
le oblazioni, ma il Ciani che avea il naso un po’ lungo avea indovinato il
volto di un cappellano sotto la maschera di San Giovanni; e pure fu costretto a
inghiottirsela, perché 1’indegnazione popolare non gli rompesse l’ossa del
tutto…».
Dunque sarebbe stato un cappellano travestito da San Giovanni a darle di santa
ragione al barone fedifrago. Riepilogando le cose lette, abbiamo:
a)La China dice che il bastone fu donato dal “barone” don Giovanni Ciani prima
del 1777;
b)Barone riprende la data da La China, fa diventare anche “sacerdote” il
“barone” don Giovanni Ciani ed aggiunge la storiella che La China,
probabilmente pur conoscendola, aveva censurato (anche perché lui stesso era
imparentato con i Ciani);
c)Guastella conferma che Ciani era barone ma non ne riporta il nome e data
l’avvenimento agli inizi del secolo XIX.
Vediamo quindi di sbrogliare la matassa…(1-continua)
19.Storie della
Settimana Santa/5. «…lu sabbitu maria sparmau lu mantu…».
Il marchese Alfonso Ricca: chi era costui?
Rispondendo
alla domanda del suo fantomatico interrogante su cosa accada il pomeriggio del
Venerdì Santo sul Calvario, dice La China:
«Soglionsi rappresentare certi dialoghi sacri, dal titolo: “La scesa della
Croce”…tal pia usanza rimonta al 1669…Però l’Opera sacra che si rappresenta
attualmente è un’importante Tragedia, scritta dal defunto Sig. Marchese D.
Alfonso Ricca, ispirata alla robustezza del tragico Vittorio Alfieri. Regnano
in quell’opera l’amore e la pietà, e sopra la pietà il terrore… Vi è luce e
ordine nei pensieri, magnificenza e densità nello stile, vita nell’intreccio,
bravura nelle sentenze, fierezza nei sensi, fulmini nell’eloquenza; e tutta
insieme la mole viene agitata da un urto e da un impeto di affetti così
prepotenti, che t’irrita e ti molce, ti affanna e ti consola!!».
Dopo quest’enfasi manzoniana (ispirata da reminiscenze del “5 Maggio”),
rispondendo alla seconda domanda, relativa a cosa si faccia per la domenica di
Pasqua, dice il parroco: «Rappresentansi le cosi dette sette patelle…»,
aggiungendo come spiegazione che «…in tempi non lontani a noi, la
rappresentazione sacra della Pasqua veniva formata da sette attori, o meglio si
divideva in sette parti, che adesso sono state ridotte a cinque. Quelle sette
parti si dissero in sussieguo…le sette patelle. Ora generalmente, volendo
andare ad assistere a quella sacra rappresentazione si dice: andiamo a sentire
le sette patelle…».
In sintesi, La China dice tre cose:
1)per il Venerdì Santo dal 1669 si sarebbero recitati dialoghi aventi come
soggetto la Deposizione (“La scesa della croce”);
2)nel 1890 però si recitava il Dramma Sacro del marchese Alfonso Ricca;
3)la domenica di Pasqua invece fino a “tempi non lontani” (rispetto al 1890) si
sarebbero recitate le cosiddette “sette patelle”, così chiamate perché recitate
da sette attori (nel 1890 ridotti a cinque), aventi come soggetto ovviamente la
Resurrezione, versi però di cui non riporta l’autore.
A questo proposito, Giovanni Barone nella sua opera del 1950 (pag. 154) scrive
senza alcuna esitazione che l’autore dell’opera rappresentata la domenica è lo
stesso Alfonso Ricca, le dà il nome di “Resurrezione” e la dice recitata in sostituzione
delle “Sette patelle” (cosa che La China non aveva scritto, limitandosi a dire
che “ora” -cioè nel 1890- le sette parti erano state ridotte a cinque: dunque
un componimento recitato da cinque attori…).
Prima però di dire cosa penso di questa ingarbugliata vicenda di testi
sconosciuti sostituiti da altri, vorrei occuparmi di dire qualcosa sull’autore
del Dramma Sacro e presunto autore anche della “Resurrezione” della domenica:
il marchese Alfonso Ricca.
Nato nel 1791, Alfonso Ricca era il primogenito di Salvatore (di cui a San
Giovanni esiste un monumentino funerario), marchese di Tettamanzi e barone di
Villamarina (l’odierna contrada Gaspanella), figlio a sua volta del barone (poi
marchese) Alfonso, fratello minore dell’arciprete don Enrico Ricca e suo erede
principale. Una sua sorella, Maria Delizia fu la madre di Serafino Amabile
Guastella, mentre un suo fratello, Federico, fu letterato e poeta, autore di
componimenti in lingua e in dialetto (di genere licenzioso e fortemente
anticlericale) ed altri due fratelli, Ferdinando ed Enrico che furono anch’essi
patrioti liberali. Un’altra sorella, Isabella, ci è nota per aver fatto
costruire il monumento funerario al cav. Federico (di fronte a quello di Mario
Pancari, di cui era stato “inimicissimo”).
Del nostro autore così scrive il barone Ignazio Paternò (Vittoria di Sicilia.
Appunti storici. Seguito delle memorie Storiche di Vittoria dal 1800 al
1900…Opera postuma, 1951) nel paragrafo “Uomini illustri del secolo XIX ed
istruiti” (pag. 247 e segg.), opera risalente probabilmente agli anni ’30 del
Novecento. Da quanto scrive Ignazio Paternò sul «Marchese Alfonso Ricca di
Tettamansi, nipote di quel parroco, Enrico Ricca che riempì della sua fama
Vittoria, quasi tutto il secolo XVIII…», possiamo cogliere due aspetti del
nostro autore: il politico ed il letterato.
Per l’aspetto politico, Ignazio Paternò lo dice aderente al partito dei
“Cronici”, insieme con il barone Francesco Contarella, Giombattista Paternò
(figlio del barone Ignazio), mentre erano “anti Cronici” i Leni Spadafora
(peraltro parenti stretti dei Ricca), legati com’erano al marchese Gioacchino
Ferreri di Comiso, principale esponente del “partito della Regina”. Da queste
notizie si deduce che le idee di don Alfonso erano ispirate agli ideali di
modernizzazione della Sicilia. I “Cronici”, rappresentarono la parte più
avanzata dell’aristocrazia, che con la fragile ma agguerrita borghesia
siciliana si raccolse attorno all’abate Paolo Balsamo, al duca d’Orléans e a
Lord Bentinck, plenipotenziario e vero “re” di Sicilia durante l’occupazione
inglese dell’Isola tra il 1806 e il 1815. Di questo processo politico fu frutto
fu la Costituzione del 1812, una svolta rispetto al passato, ma fortemente
improntata ad ideali conservatori. I “Cronici” furono così chiamati dal
giornale “La Cronica di Sicilia”, pubblicato a Palermo tra il 1813 e il 1814,
per la difesa e l’attuazione della Costituzione, contro la parte reazionaria
della nobiltà siciliana e del circolo della regina Maria Carolina, espulsa
dall’Isola nel 1813 ed esiliata a Vienna, mentre gli “Anticronici” brigarono
poi per riconsegnare il potere a re Ferdinando e riuscirono infine a far
annullare la Costituzione nel 1816.
Per quanto riguarda l’aspetto letterario, dice Paternò:
«Fu poeta e studioso di lettere italiane. Scrisse il Dramma Sacro, che si
recita a Vittoria, nel pomeriggio del Venerdì Santo, sul Calvario, dinnanzi al
Simulacro di Gesù Crocifisso. In esso si ammirano, oltre a scene di tragicità,
dei versi ispirati ad una grande delicatezza di pensiero e di forma. Nel suo
assieme il dramma riesce a suscitare un vivo misticismo che si accorda bene con
la concezione della passione del Redentore». Ma Ricca non fu solo letterato
“serio”.
«Fu un felice improvvisatore -aggiunge il barone-, si ebbero parecchie poesie
scritte in dialetto Siciliano, dove mostravasi una facilità di verseggiare, la
spontaneità del verso e l’eleganza della forma. Formò per varie settimane il
godimento dei buoni Vittoriesi del tempo una poesia quasi improvvisata, che
cominciava così: “Apollu, Apollu/ dammi na citaredda e sia/ scurdata comu n’
diavolu/basta ca trucculìa”. In essa si faceva la caricatura di quattro
fratelli appartenenti alla migliore società del luogo, che mostravansi
scalmanati, irritati e spinti da propositi vendicativi a causa della avvenuta
fuga di una loro sorella, con un giovane barbiere. Le scene ridicole esposte,
le apostrofi ed i gesti di costoro che venivano chiamati coi soprannomi loro
affibbiati dal popolo, rendevano la narrazione pregevole dal lato artistico, e
la poesia ammirata fino al punto d’essere giudicata un capolavoro».
A queste notizie, dalle ricerche dell’avv. Gianni Ferraro (ed anche dalle mie),
possiamo aggiungere che il marchese Alfonso Ricca fu decurione (cioè
consigliere comunale) nel 1821.
Inoltre si interessava già di teatro, se lo troviamo fra gli attori che
recitano con la compagnia Faleri-Romanelli la sera del 17 settembre 1827 nei
locali del Teatro Vecchio (La Barbera). Fu rieletto decurione nel 1844
(Ferraro) e poi nei primi del 1846, quando dimostrò grande sensibilità per
assicurare l’assistenza medica ai bisognosi. Intervenne anche con ironia e
competenza in un dibattito sulla necessità di diminuire le tasse nel Comune di
Vittoria. Nel luglio 1846 si dimise da amministratore della Chiesa Madre,
carica che aveva ricoperto dal 1842 (ne ignoriamo i motivi). Nel catasto del
1851 a lui (morto l’anno prima) risultano intestate ben 10 stanze al primo
piano dell’attuale Palazzo Ricca (oggi sede principale ma provvisoria
dell’Istituto Comprensivo “San Biagio” intitolata al piccolo Oliver Di Falco).
Sul Ricca letterato il giudizio non è eccelso. Gli studiosi che hanno esaminato
con attenzione il testo del Dramma Sacro, ne hanno messo in evidenza le
imperfezioni stilistiche, le incongruità, le pecche. Alfieri (op. cit. 1988)
definisce Ricca uomo di «cultura media», non particolarmente versato nelle
letterature classiche. E non condivide affatto il giudizio entusiastico di La
China, che paragona lo stile di Ricca a quello di Vittorio Alfieri stesso.
Angelo Alfieri si chiedeva poi se il Ricca avesse scritto solo questo
componimento di 450 versi, utilizzato dopo la sua morte, avvenuta nel 1850, per
la celebrazione del Venerdì Santo, non prendendo in considerazione quanto
scritto da Barone nel 1950, che gli attribuiva anche la “Resurrezione”.
Ritenuto inadatto, il testo fu più volte rimaneggiato da letterati (il rag.
Emanuele Jacono, l’avv. Emanuele Giudice), ampliato con prologhi ed epiloghi, a
volte ridotto, per renderlo più “rappresentabile” scenicamente, adeguarlo alla
sensibilità dell’oggi, più comprensibile dal punto di vista linguistico. In
sostanza, quello che salta subito agli occhi, è che il testo non fu scritto per
una Sacra Rappresentazione e comunque il marchese Alfonso Ricca non lo scrisse
per vederlo rappresentato al Calvario…
E allora? Pur sapendo di andare controcorrente e di suscitare forse qualche
disapprovazione, vorrei esprimere la mia teoria su come siano andate le cose,
in base a due ricerche documentate: quella di Ferdinando Terranova Giudice del
1910 e l’altra del 1992 del dr. Giuseppe La Barbera,
Infatti nella sua Inchiesta delle Leghe Socialiste alla Congregazione di
Carità, opera magistrale di Nannino Terranova, riferendo di una vecchia disputa
tra gli eredi Ricca e il Collegio di Maria di San Giuseppe in merito al
mantenimento dell’orfanotrofio fondato dall’arciprete don Enrico Ricca,
Terranova scrive che nel 1822 gli amministratori di San Giuseppe intimarono
agli eredi Ricca di pagare alcuni canoni dovuti sulle 33 salme di terra a Pozzo
Ribaldo soggiogate a favore del Collegio da don Enrico Ricca. L’erede -scrive
Terranova- altri non era che il «marchese don Alfonso Ricca, inteso
“l’eretico”, fra l’altro per aver scritto quei versi satirici su Cristo al
Calvario, che i preti hanno deturpato e imbastito in sacra tragedia».
Ricca non pagò (continuando in questo, aggiungiamo noi, la volontà del padre
Salvatore) e la questione fu chiusa dalle figlie Clementina, Rosa ed Elena, sue
eredi, solo nel 1895, quando peraltro tutti i beni ecclesiastici erano passati
al Comune. Terranova fu persona troppo coscienziosa per inventare cose di sana
pianta. Secondo lui “i preti” avrebbero modificato il senso dell’opera di
Ricca, notorio anticlericale, al punto da essere definito “l’eretico”.
Forse una indiretta conferma di quanto detto da Terranova ci viene dal silenzio
assoluto di Serafino Amabile Guastella che pure nella sua opera del 1876 sui
Canti popolari del Circondario di Modica, passando in rassegna in un corposo
capitolo tutte le feste dei comuni del Circondario, ignora completamente lo
svolgersi di una Sacra Rappresentazione a Vittoria già all’epoca, pur parlando
ad esempio di feste vittoriesi di cui si è persa traccia, come quella di San
Pietro in Vincoli: in filologia si chiama “argumentum ex silentio”..
Ma a mio avviso la prova più importante ci è stata fornita nel 1992 da Giuseppe
La Barbera, che nel suo breve saggio dal titolo “Rappresentazione sacra nella
Pasqua di Resurrezione” ci parla del carteggio intercorso nel 1880 tra il vescovo
La Vecchia e La China. Avendo infatti il vescovo chiesto notizie su cosa si
rappresentasse nella Settimana Santa (al fine di porre un argine
all’improvvisazione ed al ridicolo che spesso regnava in queste
manifestazioni), La China mandò due testi di cui era in possesso, sostituendo
ai “dialoghi della scesa della croce” (che non sappiamo cosa fossero o cosa
fossero diventati) il testo di un “Contrasto tra Fede e Ragione” per il Venerdì
Santo; alle “sette patelle” recitate la domenica di Pasqua un testo riveduto e
corretto per cinque attori, detto poi “Resurrezione”. Non sarebbe possibile
infatti che La China, che possedeva i versi di Ricca (migliori comunque dei
testi recitati o in circolazione), avesse avuto l’idea di proporli al Vescovo,
dopo avervi apportato qualche “correzione” stilistica o di contenuto?
Un’ipotesi, questa, che scioglierebbe tanti dubbi sul contenuto. Infatti il
testo di Ricca del Venerdì contiene cose che con un “dramma mistico” ben poco
hanno a che vedere e che sembrano appunto una sorta di “contrasto” tra
Fede/Superstizione e Ragione. Le figure che si oppongono ai seguaci di Gesù
(soprattutto Longino e Nizech) usano termini da “conservatori illuminati”.
Longino critica l’oscurantismo (oggi diremmo “integralismo”) religioso («Perché
l’uomo giammai non infierisce,/ Se non quando servir crede egli Iddio») da un
lato; e dall’altro le masse rivoluzionarie («Vidi un’immensa folla e
fluttuante/ Di gente, cui il suo grado non piace,/ Cercare sempre migliorar
fortuna/ Con assassinii, con rivolte e stragi»); Nizech esalta il valore della
Ragione e della Scienza Naturale contro i supposti miracoli («Quel che spesso
non è che naturale/ Miracoli chiamar suol gente idiota:/ E tutto ciò che il suo
capir sorpassa/ Sovrumano lo crede e cieca adora»; e inoltre i miracoli sono
«Vani sofismi d’impostor accorto/ che offende religione e sacri riti…/che
opprime e lega il libero pensiero»… Alfonso Ricca appare un conservatore
illuminato, un liberale che combatteva sia l’oscurantismo religioso, sia gli eccessi
rivoluzionari. Un laico cui piacque provarsi a scrivere versi sulla tragedia
del Golgota, ma a modo suo, dipingendo un contrasto tra Ragione e
Superstizione, più che tra Religione ed Empietà. Un razionalista, seguace
dell’Illuminismo (indicativo l’accenno alla scienza fisica, che spiega anche
ciò che sembra un miracolo), un moderato che odiava gli eccessi rivoluzionari
(si riferisce alla rivoluzione del 1820?); una moderazione che gli faceva
mettere in bocca a Nicodemo parole dure contro la rivoluzione frutto del
razionalismo «peste di nazion» che aveva generato «La mala intesa libertà, che
poscia /In aperta licenza ognor trabocca»). Stessi concetti nei versi della
Risurrezione, con Misandro che attacca la «genìa funesta/ che si pasce di preda
e tradimenti/ e ne’ tumulti poi vanno a cercar fortuna…»; e quindi il
«…prezzolato orator [che] nel suo linguaggio predica l’anarchia»…
Forse Terranova esagera nel definirlo autore di versi satirici «su Cristo al
Calvario», ma certamente qualcuno, forse La China, li adattò ad altro uso. E fu
forse così che don Alfonso Ricca, detto “l’eretico”, divenne autore di un
“dramma sacro”…(5-continua)
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